mercoledì 8 febbraio 2012

Raccontare le contraddizioni. Intervista ad Ascanio Celestini

'Il racconto non è solo un modo per tessere la propria storia, ma anche per tesserla con quella degli altri'.

foto di Fabio Zayed


Si parla di memoria e viene subito in mente il discorso pubblico su questa, la sua istituzionalizzazione, l'appiattimento delle emozioni, l'omologazione dei ricordi. Ma la memoria non è statica - come ci racconta Ascanio Celestini in questa intervista - è innanzitutto un'azione, una maniera di costruire la propria identità; per questo non c'è una memoria unica ma tante memorie in contraddizione tra di loro.

Che cosa è e a che cosa serve la memoria?

Mentre la memoria del computer è una cosa che sta in un posto come un libro in una libreria, un oggetto al quale possiamo delegare chiedendogli di ricordare ciò che noi dimentichiamo con la consapevolezza che in ogni momento possiamo tirarlo fuori e leggerne un paio di pagine, la nostra memoria non è né una cosa né un luogo. La nostra memoria è un’azione: ricordare. Non c’è una memoria nobile che riguarda la grande storia e una volgare che ci fa ricordare dove abbiamo parcheggiato la macchina. La memoria, proprio perché non è una cosa, ma un’azione, è tutt’uno col nostro comportamento quotidiano. Noi ricordiamo guardando e camminando, ricordiamo i sapori e gli odori mentre mangiamo e respiriamo. In un certo senso noi siamo la nostra memoria.

Negli ultimi 50 anni la memoria, considerata come possibilità di tramandare la Storia attraverso le piccole storie familiari, è andata scomparendo. Mi spiego meglio: non ci sono più le tradizioni familiari, i racconti dei nonni; forse quella degli attuali quarantenni è stata l'ultima generazione che ha ancora un legame con questo tipo di tradizione e questo senso di identità ed appartenenza. Questa memoria identitaria che passa attraverso il racconto con che cosa è stata sostituita?

Potrei dire provocatoriamente che la memoria scompare perché c’è la scuola. Mio nonno contadino aveva un padrone che gli imponeva di arare un campo, ma quel padrone non aveva la conoscenza per ararlo da solo. Il “saper fare” apparteneva completamente a mio nonno. Oggi un bambino entra a scuola all’età di sei anni, ma spesso già a due anni incomincia a frequentare l’asilo nido. La maggior parte di questi bambini frequenteranno le scuole superiori e molti usciranno dall’università almeno a venticinque anni. In tutti questi anni la famiglia avrà un ruolo importante, ma la fonte del sapere verrà individuata nella scuola. Questo meccanismo inevitabilmente delegittima la memoria familiare che, in confronto alla scuola (e quindi ad una cultura che viene considerata più alta, complessa e ricca di quella familiare) diventa folcloristica e noiosa. Per mio nonno contadino, invece, la scuola era la famiglia e i compagni di lavoro. Non vedeva la memoria familiare come un mondo altro rispetto al resto della sua vita. Altro da se era il padrone dal quale, però, non aveva niente da imparare e alla cui memoria non era per niente interessato.

Sui grandi eventi fondativi del nostro paese (Resistenza, 150 anni dell'Unità) non c'è possibilità di una memoria condivisa; al massimo si può condividere la retorica della memoria in cui il ricordo è cancellato da un generico accomodamento in cui tutti hanno ragione. Perché non c'è possibilità di verità nella memoria della nostra nazione?

Le nostre città sono piene di piazze, scuole e strade intitolate a Mazzini che dallo stato italiano era considerato un terrorista. Per quanto riguarda la resistenza conosco tanta gente che si dichiara pacifista, ma non considera una contraddizione l’ammirazione nei confronti dei partigiani che sparavano e uccidevano. Ovviamente solo la retorica delle parate e dei discorsi ufficiali può mettere insieme queste contraddizioni, ma noi sappiamo bene che le contraddizioni restano anche se vengono negate. In più rispetto alla memoria c’è da dire che non può esistere condivisione perché ognuno di noi ha un punto di vista e una storia personale differente. Proprio perché la memoria è l’atto del ricordare non possiamo servirci di una memoria istituzionale come di una marmellata del supermercato.

La storia ha spesso cancellato il femminile; la memoria, intesa come il racconto orale che costruisce appartenenza, ha invece riscattato le donne. Hai raccontato di tua nonna, che 'faceva i racconti delle streghe' che non erano fiabe ma realtà e possibilità di esplicitare un desiderio altrimenti represso, per la loro funzione di narrare una figura di donna emancipata. Ci puoi dire qualcosa di più su questo?

Sisto Quaranta è uno dei mille rastrellati del quartiere Quadraro di Roma nell’aprile del ‘44. Quando gli chiesi “perché non avete mai raccontato di questo grande rastrellamento?” mi rispose “io l’ho sempre raccontato, ma non sono mica uno scrittore.. faccio l’elettricista”. Per quanto riguarda le donne ci troviamo nella stessa condizione: per secoli alla maggior parte di loro non è stato consentito di uscire dalla cucina se non per andare al bordello. Ma tanto nel bordello che nella cucina le donne hanno continuato a vivere e raccontarsi. Mia nonna raccontava storie di streghe che sembravano fiabe di magia, ma lei le considerava storie vere. La strega nella nostra tradizione non è cattiva, è semplicemente potente. Col suo potere può fare del male o del bene. Tiene nascoste le sue capacità, ma queste la emancipano e la pongono al di sopra degli uomini della sua famiglia e del suo paese. Eppure questa emancipazione non passa attraverso l’imitazione dell’uomo, nel senso che la strega non acquista potere o libertà perché si veste come l’uomo, impara a fare lavori ritenuti maschili o frequenta l’osteria. La sua è una liberazione che resta tutta nella sfera femminile. In un certo senso mia nonna raccontava storie di emancipazione femminile e trovava una sorta di emancipazione nel raccontarle. Non a caso erano storie che una donna raccontava ad altre donne, infatti gli uomini (tranne i bambini) non assistevano mai anche perché mia nonna narrava quasi sempre in cucina, nei giorni di festa durante la preparazione dei pasti.

foto di Fabio Zayed


Ci apprestiamo a celebrare i 150 anni dall'Unità d'Italia. Rischiamo la retorica, rischiamo di riscattare una memoria che sia solo consolatoria e nostalgica. Come si potrebbe lavorare su questo tema del nostro passato?

Raccontando le contraddizioni che sono straordinarie. Per esempio il risorgimento repubblicano ha vissuto un momento entusiasmante nei giorni della Repubblica romana del 1849 e non furono gli austriaci o i borboni a riconsegnare la città al papa che era scappato a Gaeta, bensì i francesi che dai romani erano considerati compagni perché repubblicani. Si racconta che Garibaldi ne arrestò trecento e invece di incarcerarli vennero portati in piazza e festeggiati.

Hai privilegiato, nel tuo percorso, il punto di vista di un'umanità chiusa (sia in senso metaforico che letterale) nelle istituzioni totali (la fabbrica, il manicomio, il call center) in cui il potere detiene l'assoluto controllo dei corpi e delle menti. Possono essere la memoria individuale, il vissuto soggettivo, l'esperienza interiore, attraverso la forma del racconto, una forma di resistenza al potere?

Certamente. Raccontare significa rimettere in fila i frammenti del proprio vissuto e in un certo senso raccontarsi è una maniera per produrre la propria identità. Inoltre il racconto non è solo un modo per tessere la propria storia, ma anche per tesserla con quella degli altri.

(7 febbraio 2011)

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