mercoledì 8 febbraio 2012

La primavera è durata poco

La società ancora non riesce a riconoscere che in quel crimine orrendo c’è anche la morte di una coppia, di un progetto di vita, di un amore

 
Ancora non è finita. Sono passati 34 anni e non è ancora finita. I resti del Negro sono finalmente a disposizione della sua famiglia, sua moglie e le sue due figlie, ma la trama terribile che ha legato queste vite e le ha trascinate per lunghissimi anni tra bugie dolorose e rivelazioni sconcertanti è ancora potente ed attiva. E così Viviana, Mariana e Fernanda sono prigioniere di quel corpo amato e sconosciuto di un ragazzo di 26 anni, che non può essere marito e padre; loro che di anni, adesso, ne hanno 59, 37, 35.
È da 12 mesi che il corpo di quel ragazzo, per decreto del Tribunale, può tornare a casa; ma Fernanda è lontana, in Europa, e Viviana e Mariana la vogliono aspettare. L’attesa, in fondo, è la cifra fondamentale di questa storia unica e uguale a tante altre.
L’Argentina del 1976 era buia; la paura si diffondeva rapidamente. Tutti sapevano che si stava scivolando verso una nuova dittatura ma nessuno sapeva che grado di crudeltà e perversione si sarebbe raggiunto.
“Eravamo studenti di architettura, entrambi militanti nel PRT- Partido Revolucionario de los Trabajadores; il Negro con incarichi nella direzione. A partire dalle elezioni del 1973 abbiamo vissuto un periodo di ‘primavera’. Era un momento in cui immaginavano che si sarebbe compiuto tutto ciò in credevamo. La militanza era la nostra vita. Abbiamo avuto dei figli perché ci amavamo e pensavamo che avrebbero vissuto in un mondo migliore del nostro. E’ durato pochissimo ma in questo anno e mezzo sono nate le mie figlie – mi racconta Viviana Losada-. Già prima del golpe del 1976 si respirava una brutta aria e il Partito era tornato a lavorare nella clandestinità.”
Il Negro è stato uno dei primi desaparecidos.
Rodolfo, il Negro, è uscito di casa la mattina del 23 marzo, il giorno prima del colpo di stato militare. Doveva andare ad una riunione clandestina prevista per il 27. Era sempre così; per recarsi sul luogo prestabilito si prendevano molte precauzioni. Io stessa sapevo che c’era una riunione ma non sapevo dove si sarebbe svolta. Ovviamente quando c’è stato il golpe, il giorno dopo, ho cominciato ad essere inquieta ed è iniziata l’attesa. La sera del 30 ho ricevuto una telefonata: “Parlo con la moglie di Rodolfo Ortiz? Volevo avvisarti che il Negro è stato preso”. Era uno dei compagni, non ha detto altro. Né come, né dove. Ho passato la notte a bruciare documenti e alle 4 del mattino siamo scappati di casa; le bambine con i miei genitori, io ho vagato mesi nelle case di altri compagni perché dovevo lavorare. In quell’epoca sono finite molte amicizie. Moltissime erano le persone che si rifiutavano di aiutarti, per esempio se avevi bisogno di un posto in cui passare la notte. Alla fine della dittatura molti sono stati generosi e hanno perdonato, io no.

 
La ricerca di Rodolfo è andata avanti per anni.
È stato inghiottito dal nulla. Vari compagni mi hanno confermato che era morto nel luogo della riunione e io fin dal primo giorno ho cercato un cadavere. Per 22 anni io e le mie figlie abbiamo costruito il nostro lutto pensando che non fosse passato nei campi di tortura, cercando di riconoscere un corpo tra migliaia di altri corpi che, dopo la fine della dittatura, hanno cominciato ad apparire. Ho letto i risultati di tantissime autopsie sperando di riconoscere da un particolare il mio uomo; erano tutte uguali. Tutti corpi di giovani uomini, capelli scuri, indossavano jeans; un’intera generazione. Poi nel 2008, gli antropologi forensi mi hanno chiamato e mi hanno raccontato una verità differente. Il Negro è sopravvissuto allo scontro a fuoco, è stato sequestrato, è stato 45 giorni ne El Vesubio, un campo clandestino di tortura, e poi è stato ucciso e interrato in una fossa comune. E soprattutto lo avevano ritrovato. Razionalmente sono consapevole che non avrei potuto fare nulla ma pensare che io cercavo un cadavere quando lui era ancora vivo è qualcosa di dilaniante. Mi porto dentro un senso di colpa costante. Quando ho avuto questa notizia le mie figlie erano fuori dal paese e ho aspettato il ritorno di entrambe per raccontargli insieme, finalmente, la verità. Hanno avuto delle reazioni opposte, molto differenti: una ancora non ha smesso di piangere, non riesce a fare pace con suo padre che colpevolizza per aver ‘amato’ più la lotta che le sue figlie, non ne vuole sapere nulla della politica; l’altra ha avuto una reazione di rabbia estrema e da allora se ne è andata dal paese: ‘non posso vivere in Argentina’ dice.
Tu invece continui a stare qui.
Si, ma Fernanda ha ragione. Siamo un paese che non è in grado di fare i conti con il suo passato, nessuno si assume la responsabilità di quello che è accaduto. L’unico riconoscimento è stato dato alle Madri de la Plaza de Mayo, perché la nostra è una cultura giudaico cristiana in cui la madre è un simbolo che forma parte dell’immaginario. Le Madri sono state un esempio fortissimo e hanno guidato questa lotta ma tra i familiari ci sono anche i mariti e le mogli dei desaparecidos, e sono invisibili. La società ancora non riesce a riconoscere che in quel crimine orrendo c’è anche la morte di una coppia, di un progetto di vita, di un amore.

(7 giugno 2010)

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