mercoledì 22 febbraio 2012

Dopo il terribile stupro delle scorse settimane ai danni di una ragazza, all'uscita di una discoteca, i tre responsabili hanno ripreso servizio nel loro reggimento e 'pattuglieranno' le strade de L'Aquila. Ecco il comunicato del Comitato 3e32.




Ieri i tre caporali del 33esimo reggimento Acqui indagati per lo stupro di Pizzoli sono rientrati in servizio dopo un breve congedo nel giorno in cui lo stesso reggimento ha preso il posto degli Alpini nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”.
Ci sembra il minimo quindi chiedere al 33esimo Reggimento Artiglieria Acqui e alle istituzioni competenti che i tre caporali indagati per il violentissimo stupro vengano immediatamente sospesi dal servizio in via precauzionale e che di questo venga reso nota pubblicamente.
Vogliamo la certezza di non trovare questi indagati per stupro a svolgere un qualche ruolo di tutori dell’ordine nell’ambito di un’operazione chiamata “strade sicure”.
In caso contrario non ci verrebbe più data la possibilità di fare distinzioni.
Abbiamo sempre criticato la militarizzazione della nostra città come abbiamo sempre detto che il garantismo per noi è un valore.
Questo però non è garantismo, è omertà complice degli stupri e della cultura della sopraffazione che li sottende. Non possiamo stare a guardare.

Comitato 3e32

mercoledì 8 febbraio 2012

ARGENTINA: Dopo la “notte neoliberale”, il cambiamento

scritto insieme a Gianni Tarquini

Dieci anni fa in Argentina infuriavano disoccupazione, fallimenti, disperazione: il tramonto dell’illusione della ricchezza facile lasciava rovine e morti sul terreno. Le protestedel 19 e 20 dicembre 2001, nelle quali persero la vita 40 manifestanti, chiusero tragicamente un ciclo di recessioni, indebitamento pubblico e caduta libera del PIL, sfociato nella salita verticale degli indici di povertà e nell’ultimo, disperato tentativo di frenare il tracollo con il blocco dei conti correnti (il cosiddetto “corrallito”), che impediva ai cittadini di accedere ai propri risparmi.Il dramma di quelle giornate segnò la fine della lunga notte neoliberale vissuta dal Paese che tre anni prima il Direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Camdessus, aveva definito “un esempio da seguire” per la sua diligenza nel recepire le ricette di quella istituzione finanziaria e per avere smantellato le politiche sociali e le più importanti aziende pubbliche costruite negli anni della crescita economica.
Per demolire le conquiste sociali argentine c’erano voluti alcuni decenni, attraversati anche da feroci dittature militari. Alcuni analisti sostengono che il processo di dismissione del welfare si possa far risalire al colpo di Stato del 1955 contro Juan Domingo Perón, ma più specificamente e sistematicamente l’offensiva “neoliberale” iniziò con il golpe del 1976 e successivamente si sviluppò con i governi democratico-liberisti, che adottarono le politiche suggerite dagli USA e dal Fondo Monetario Internazionale. In questo lungo periodo crebbe a dismisura l’indebitamento con Stati ed istituzioni straniere e, per guadagnare il consenso dei settori economici, fu acquisito il debito di molte imprese private. Contemporaneamente, si incominciò a favorire l’acquisto di prodotti fabbricati all’estero ed a demolire il buon tessuto industriale creato nel periodo peronista. L’aumento esponenziale delle importazioni alimentò la fuoriuscita di capitali verso l’estero e favorì la deindustrializzazione, facendo lievitare il debito pubblico e la disoccupazione.L’Argentina bruciava o svendeva i suoi beni pubblici, passando dall’essere la decima potenza economica mondiale, il granaio capace di accogliere milioni di migranti in fuga da guerre e carestie, a Paese con indicatori economici e sociali da Terzo mondo: il 52% della popolazione sotto la soglia di povertà, il 71% di denutrizione infantile, il più alto debito pubblico pro-capite del pianeta, la classe media colpita duramente dalla crisi. Negli anni tra il 1998 e il 2002 gli aeroporti e i consolati stranieri si riempirono di giovani che volevano emigrare, Questo era, dieci anni fa, l’esito dell’ubriacatura liberista.
Il Paese, però, seppe infine imboccare una coraggiosa via d’uscita: nella fase di transizione venne azzerato il pagamento del debito e fu rotta la convertibilità tra il peso (la moneta nazionale) e il dollaro, che era stata fissata 1 a 1 da una legge del 1991. I passi successivi furono altrettanto decisivi, con la svalutazione della moneta e gli accordi di ristrutturazione del debito in quantità e in tempi di restituzione che permisero una riattivazione economica interna e un risparmio di denaro che altrimenti sarebbe andato alle banche straniere creditrici. A queste scelte politiche si deve la vittoria dell’esponente della sinistra peronista Néstor Kirchner nelle elezioni presidenziali del 2003 e di sua moglie Cristina Fernández nel 2007 e nel 2011[1]. Da allora, per nove anni, il Paese è cresciuto di circa il 94%, la più alta crescita di tutto l’emisfero occidentale, con un ritmo tra il 7 e il 10% annuo (escluso il 2009): è stata avvìata una redistribuzione della ricchezza verso le fasce più deboli della popolazione e gli indici di povertà, indigenza e disoccupazione sono stati portati sotto il 10%.
Il ‘caso’ argentino è particolarmente interessante perché la rapida uscita dalla crisi è stata possibile grazie ad una ferma riorganizzazione economica ed alla decisione di non pagare percentuali importanti di debito pubblico. Senza chiedere l’aiuto delle istituzioni finanziarie internazionali e senza ricorrere alle classiche politiche liberiste per ad attirare i capitali stranieri. Il Paese è stato salvato opponendosi alle richieste di “aggiustamenti” fiscali e di non stanziare fondi per spese di carattere sociale, (considerate dai liberisti una dispersione “inutile” di risorse pubbliche). I risultati sono stati positivi.
La sociologa Norma Giarranca, l’economista Julio Gambino, il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglizpropongono una lettura dell’attuale crisi europea alla luce di quanto accaduto in Argentina e sottolineano i guasti provocati dalle “ricette” che il FMI e la Banca Centrale Europea propongono (impongono) ancora ai Paesi in difficoltà. Certo, l’Argentina è ricca di prodotti naturali esportabili e dispone di grandi estensioni di terreni coltivabili (a differenza della Spagna, del Portogallo, dell’ Irlanda e dell’ Italia); tuttavia, l’inflazione è ancora alta. Come recentemente ha rilevato l’economista Miguel Bonasso, “la crescita non coincide con lo sviluppo”, dato che è dovuta alle esportazioni delle commodities (soprattutto di soia e mais), il cui modello produttivo impoverisce presto i suoli, limita la diversificazione agroindustriale e favorisce la concentrazione di latifondi privati. L’attuale sistema economico non può evitare la marginalizzazione di una buona parte della popolazione, né il “clientelismo politico” e, in un futuro non lontano, si manifesteranno nuove, acute tensioni sociali. Ma non si deve dimenticare che nel corso dell’ultimo decennio si è verificato un grande e positivo cambiamento: il Paese, oggi, svolge un’importante ruolo politico a livello continentale (e non solo) [2] e la sua straordinaria crescita ha aperto nuove opportunità. Interessante è uno studio del CEPR (Center for economic and policy research) [3], effettuato da Mark Weisbrot, Rebecca Ray, Juan A. Montecino, Sara Kozameh e terminato nel 2011, che, attraverso un’approfondita analisi degli indicatori economici e sociali, perviene alla conclusione che i miglioramenti degli indici macroeconomici, sociali e sanitari argentini sono reali e notevoli, come anche gli investimenti in politiche sociali e gli interventi redistributivi. E paragona la situazione dei paesi Europei in difficoltà con quella dell’Argentina, rilevando che il cammino intrapreso da quest’ultima, rifiutando di pagare una parte consistente del debito per liberare risorse a favore della spesa pubblica, dovrebbe essere preso in considerazione come una opzione possibile anche nel nostro vecchio continente.

[1] Vedi Cassandra, 4/2011 (nuova serie on – line), “Avanti verso il cambiamento” di Gianni Tarquini.
[2] Come l’aver bloccato, insieme agli altri Stati latinoamericani, in particolare Brasile e Venezuela, l’avvìo del mercato comune con gli USA, l’ALCA, chiesto da Bush, nel corso del vertice di Mar de la Plata(2005) e sviluppato politiche di apertura verso nuovi acquirenti internazionali, come la Cina, e di integrazione continentale, come la recenta nascita del CELAC (Comunidad de Estados de Latinoamérica y el Caribe) del 2 dicembre 2011.
[3] Il CEPR ha sede a Washington e riunisce studiosi di diversi Paesi. Il documento sull’Argentina è stato tradotto in spagnolo a dicembre e non è disponibile in italiano.
[1] Vedi Cassandra numero 4 del 2011, “Avanti verso il cambiamento” di Gianni Tarquini.
Recensione su Le Monde Diplomatique di settembre 2011
Teologia della Liberazione. 
Lo scontro con Wojtyla e Ratzinger Diego Facundo Sánchez 
Datanews, 2011, 12 euro

Benedetto XVI ha annunciato a Madrid che la prossima Giornata Mondiale della Gioventù si svolgerà in Brasile, a Rio de Janeiro (18-23 luglio 2013). I Gesuiti della «Humanitas Unisinos», hanno reso noto immediatamente che un anno prima (dall’8 all’11 ottobre 2012) ospiteranno un Congresso per celebrare i 50 anni della convocazione del Concilio Vaticano II e i 40 anni di pubblicazione del libro di Gustavo Gutiérrez «Una teologia della liberazione».A pensare male si fa peccato, ma quasi sempre ci si indovina e, anche se Moisés Sbardelotto, a nome dei Gesuiti dell’Istituto «Humanitas Unisinos», smentisce una qualsiasi correlazione tra i due eventi, la consequenzialità di questi due annunci racconta una storia più lunga e complessa: quella della Teologia della Liberazione (TdL) e dei suoi controversi rapporti con la Chiesa romana; quella della Compagnia di Gesù e dello scontro con Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger, da lui ordinato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.Questi temi sono al centro del libro di Diego Facundo Sánchez Teologia della Liberazione. Lo scontro con Wojtyla e Ratzinger. Trent’anni, argentino, professore di Storia nell’Università di Mar de la Plata e professore di Teologia, ha realizzato nel 2009 un lavoro di ricerca, ora pubblicato in italiano da Datanews, che si interroga sui percorsi e l’attualità della TdL e sulla salute di una corrente spirituale che nasce nella periferia, in un orizzonte politico e sociale segnato da ingiustizia e oppressione, che si trasforma attraverso una produzione culturale e teologica fino a divenire il riferimento degli «oppressi», e che ha subito, negli anni ’80 e ’90, accuse di subordinazione al marxismo e un processo di restaurazione.Nel volume, composto da tre parti che seguono cronologicamente la nascita, il cammino e l’opposizione a questa corrente teologica, vengono analizzati i suoi antecedenti storici nel Concilio Vaticano II, l’elaborazione di una teoria e di una prassi, le strategie messe in atto dalle gerarchie romane per ristabilire il controllo e, nell’ultima parte, la resistenza e le prospettive future. La ricerca è arricchita da moltissime note e riferimenti bibliografici, oltre che da due allegati che riprendono le opzioni di fondo del Concilio Vaticano II e, assai interessante, i legami di Giovanni Paolo II con l’Opus Dei.Oggi possiamo dire che la «preoccupazione» della conservatrice curia romana nei confronti della TdL non era poi così infondata. Per secoli il Vaticano ha legittimato e vissuto insieme, quietamente e confidenzialmente, ai poteri dominanti. La TdL ha chiamato la Chiesa a cambiare il suo «luogo sociale» con una proposta universale di trasformazione radicale della società e con un’opzione prioritaria a favore dei poveri. Nell’ultimo decennio l’America Latina, pur tra grandi resistenze e inevitabili contraddizioni, è stata protagonista di un mutamento epocale di cui la TdL è uno dei principi dinamici ed è innegabile che, ciò che la Chiesa ha a lungo considerato «un’eresia», abbia contribuito alla costruzione di un’idea di società capace di produrre ‘liberazione’.

Un libro che consiglio. La recensione l'ho scritta in ottobre per Le Monde Diplomatique




Fuorilegge ma onesti
Quasi un noir che alla  fine però non ti lascia l’amaro in bocca ma una gran voglia di ricominciare daccapo e immergerti nuovamente in tre esistenze che sono tre capolavori. Scritto in maniera straordinaria da Marco Cicala, con fotografie di Danilo De Marco e ritratti di Altan, questo prezioso volumetto racconta le vite del poeta, del rivoluzionario e del falsario. Al secolo Armand Gatti, Diego Camacho, Lucio Urtubia. Tre anarchici, figli del secolo scorso e delle grandi battaglie per la libertà che l’hanno caratterizzato. Tre uomini profondamente diversi tra loro con in comune la fedeltà alla propria identità.
Armand Gatti, il poeta condannato a morte e graziato, intimo di Simone De Beauvoir che gli diceva: “Sei un anarchico, dunque un reazionario”, irriducibile tanto da dichiarare “Ormai non  può più esserci né destra né sinistra: solo anarchia. Le rivoluzioni? (…)Lasciamole fare ai pianeti”.
Diego Camacho, alias Abel Paz, il rivoluzionario che partecipò alla resistenza del luglio ’36 a Barcellona, teorico della ‘barricata’ come creatrice di un nuovo spazio urbano, come “atto costituente ed identitario”.
Lucio Urtubia, il falsario, disertore, muratore, autore di una delle più riuscite truffe ai danni della First National City Bank. Finirà in carcere ma riuscirà a venirne fuori consegnando, dietro pagamento della stessa banca, le matrici dei falsi traveller’s cheques; tutto il denaro frutto di questa operazione verrà utilizzato per sovvenzionare la causa anarchica.
Per fare il verso a Bob Dylan, la cui citazione appare all’inizio del libro, tre vite fuori dalla legge ma profondamente oneste.

Marco Cicala
Tre anarchici: il poeta, il rivoluzionario, il falsario
A cura di Danilo De Marco
Disegni di Tullio Altan, fotografie di Danilo De Marco
Forum, 2011

La cura dei figli non è un diritto

Sentenza del Tribunale di Civitavecchia sul ricorso di una lavoratrice CAI

L’articolo 18 non è un tabù, dice il Presidente del Consiglio. Meno che mai lo è la legge 151 sulla maternità nella parte in cui (art. 53) stabilisce che è vietato “adibire le donne al lavoro, dalle ore 24 alle ore 6, dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino” e che “non sono obbligati a prestare lavoro notturno: a) la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente con la stessa; b) la lavoratrice o il lavoratore che sia l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni.”
Il Tribunale di Civitavecchia infatti ha dato torto a Sabrina Vidotto, una lavoratrice della CAI (ex Alitalia) che aveva fatto ricorso contro l’azienda perché non le veniva riconosciuto l’esonero al lavoro notturno.
Torniamo quindi alla vicenda delle lavoratrici madri della CAI a cui non viene riconosciuto il diritto all’esonero dal lavoro notturno, (vedi qui) così come previsto dalla legge sulla maternità, in seguito alla firma di una lettera di assunzione, nel momento del passaggio da Alitalia a CAI, che contiene una clausola, diretta a quei lavoratori e lavoratrici che avrebbero potuto usufruire dell’articolo 53 della legge 151 sulla maternità e cioè l’esonero dal lavoro notturno, in cui lo stesso lavoratore rinunciava a questo diritto. Come ci aveva raccontato una lavoratrice qualche mese fa “al momento della firma della lettera di assunzione non c’era con noi né un sindacalista né un rappresentante dei lavoratori. Accanto alla lettera di assunzione c’era un altro documento che spiegava che, nel caso in cui non avessi firmato, avrei perso anche il diritto alla cassa integrazione”.
Quello di Vidotto è il primo ricorso ordinario rivolto alla Procura di Civitavecchia ed entra quindi nel merito della questione dando torto alla lavoratrice ricorrente sulla base di una interpretazione che pone un contratto di lavoro gerarchicamente superiore alla legislazione vigente nella nostra Repubblica.
In particolare il Tribunale ha stabilito che, nel momento in cui la lavoratrice ha firmato il nuovo contratto (abbiamo descritto in quali condizioni) “ha espressamente e liberamente manifestato ‘la propria disponibilità ad effettuare la prestazione lavorativa su turni di lavoro che comportino avvicendamenti sull’intero arco della giornata lavorativa, ivi compresi eventuali pernottamenti’” rinunciando quindi ad usufruire della possibilità di esonero dal lavoro notturno così come previsto dalla legge 151, tuttora vigente. E la sentenza prosegue rilevando che nel caso in cui si ritenesse “necessario l’assenso del lavoratore per ogni singola prestazione notturna, significherebbe imporre alla società datrice oneri organizzativi particolarmente complessi e onerosi, difficilmente conciliabili con la garanzia costituzionale della libertà di iniziativa economica privata”.
Un’interpretazione che lascia di sasso secondo la quale la Costituzione italiana garantirebbe la libertà di iniziativa economica privata e la collocherebbe al di sopra dei diritti delle persone.
E mentre Vidotto annuncia di voler ricorrere in appello, CAI continua a usare due pesi e due misure. C’è chi viene esonerato dai turni di notte perché richiede ‘personalmente’ ai capi servizio ‘l’attenzione gestionale’ e chi non ci sta a far passare un diritto come una concessione e si rifiuta di fare una richiesta personale.
(27 Gennaio 2012)

Teresa Aristizabal. Ruta Pacifica de las Mujeres

Abbiamo incontrato Teresa Aristizabal della Ruta Pacifica de las Mujeres, e ci siamo fatte raccontare cosa accade in Colombia, quale è la situazione delle donne e cosa le stesse chiedono alla politica

In Colombia un conflitto che dura da 50 anni. All'origine di tutto la gigantesca disparità sociale. Alla base gli scontri tra Esercito, milizie paramilitari (le Autodifese Unite della Colombia - AUC) e gruppi armati di opposizione, le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e l' ELN (Ejercito de Liberacion Nacional). In mezzo la popolazione civile e quanti vorrebbero fare politica, sindacato, informazione, solidarietà. E le donne. Secondo quanto denunciato dalla ONG OXFAM l'omicidio di donne e la violenza sessuale sono in spaventoso aumento. In uno studio recente i noti dati: “489.687 donne hanno subito violenza sessuale dal 2001 al 2009, per una media di 6 donne ogni ora”, e più dell’80% degli stupri sono imputabili all'Esercito o ai paramilitari. Abbiamo incontrato Teresa Aristizabal della Ruta Pacifica de las Mujeres, e ci siamo fatte raccontare cosa accade in Colombia, quale è la situazione delle donne e cosa le stesse chiedono alla politica.
Che cosa è la Ruta Pacifica de las Mujeres?
La Ruta Pacifica de las Mujeres è un’organizzazione, che conta attualmente 4000 donne, e che nasce in Colombia nel 1996 con lo scopo di mettere in relazione le donne colombiane e far conoscere al mondo la situazione di violenza che si vive quotidianamente nel nostro paese, in particolare nei confronti del genere femminile. Una violenza che si manifesta nello spostamento forzato delle popolazioni, nella violenza sessuale, nell’omicidio e la sparizione di donne e delle loro famiglie, nel reclutamento forzato di bambini e bambine. La Ruta è inizialmente frutto della solidarietà delle donne e dopo qualche anno si avvicina alle Donne in Nero per poter raccontare al mondo quello che succede alle colombiane strette in un conflitto che dura da più di cinquanta anni. La nostra proposta politica è quella di poter partecipare ai tavoli di negoziazione con gli attori armati di questo conflitto; la nostra parola d’ordine è “senza la voce delle donne la verità sulla guerra non sarà mai completa”.
Quale è attualmente la situazione politica?
L’attuale Presidente, Juan Manuel Santos, per quanto cerchi di distanziarsi da Uribe è il suo erede politico. Parla molto di riforme ma la realtà è che sta offrendo il paese a potenze straniere, ad esempio firmando il Trattato di Libero Commercio con gli USA. Non rappresenta per noi una alternativa perché continua a sostenere un’ideologia militarista, guerresca, di violenza permanente che non fa altro che continuare a spogliare il nostro paese delle sue ricchezze economiche, culturali e politiche.
Quali sono le proposte politiche de la Ruta Pacifica de las Mujeres per la risoluzione del conflitto?
Ci siamo concentrate inizialmente in un lavoro di appoggio e solidarietà alle donne e alle comunità in cui il conflitto era più forte; aree geografiche come Putumayo, Antioquia, Medellin, Cauca, Nariño. Da otto anni ci siamo accorte che accanto al lavoro di solidarietà era necessario esercitare una pressione politica per l’attuazione di leggi contro la violenza. Nel 2008, grazie al lavoro nostro e di altre organizzazioni femminili, siamo riuscite ad ottenere due leggi: la legge 1257/2008 che stabilisce norme di sensibilizzazione, prevenzione e sanzioni nei confronti della violenza e della discriminazione contro le donne e la Auto 092 che riconosce la situazione di spostamento forzato della popolazione che coinvolge quasi 5milioni di cittadini dei quali l’85% donne. La terza azione che portiamo avanti è l’educazione per i diritti umani e la pace con le donne colombiane. Siamo antimilitariste, pacifiste, non violente e femministe.
In che relazione siete con la senatrice Piedad Córdoba (la donna che ha negoziato, insieme al presidente venezuelano Hugo Chávez, con le FARC un accordo umanitario per la liberazione unilaterale di prigionieri, ndr)?
Piedad Córdoba è con noi sin dall’inizio del nostro percorso e molte lotte le abbiamo fatte insieme. Le sue battaglie, che sono le nostre, l’hanno esposta a minacce e violenza e quindi è importante, per proteggere la sua persona e la sua vita, il nostro accompagnamento e la nostra solidarietà. Negli ultimi mesi ha dovuto nuovamente rifugiarsi all’estero per mettersi al sicuro; è tornata da poco ma potrà contare sulla nostra protezione ogni volta che sarà necessario.
Come nasce il suo personale coinvolgimento nella Ruta?
Sono nell’organizzazione sin dall’inizio. Sono assistente sociale e lavoro nella regione di Urabà una zona coltivata principalmente a banane per l’esportazione in Europa e nel resto de mondo. Urabà si trova al confine con Panama ed è considerata un’area strategica da tutti gli attori armati. La popolazione civile è prigioniera di questa lotta. Il mio lavoro mi ha dato la possibilità di assistere direttamente ad episodi di violenza, discriminazione, emarginazione delle donne delle comunità locali. Un donna, nel giro di 3 o 4 giorni può essere violentata dai militari, dalla guerriglia e anche dall’esercito nazionale. L’assistere in prima persona a questa situazione mi ha fatto unire alle altre donne, insieme diciamo che non ci fermeremo fino a quando la Colombia non sarà libera e in pace.

(19 Dicembre 2011)

Diritto o concessione?

La vicenda CAI, in cui alle lavoratrici non viene riconosciuto il diritto all’esonero dal lavoro notturno, così come previsto dalla legge sulla maternità, ci racconta lo smantellamento delle tutele e la scarsissima attenzione alle famiglie

 
 
Che le imprese da sempre abbiano cercato di sottrarre diritti ai lavoratori a vantaggio del profitto, alzando sempre la posta in gioco e forzando la mano, non è una novità per nessuno. Ma negli ultimi anni stiamo assistendo ad una completa deregolamentazione del mondo del lavoro che mette a rischio diritti e tutele acquisite e per i quali si è combattuto a lungo. E così se Marchionne rappresenta ormai il prototipo di questo modo di fare, c’è stato un caso precedente a quello di Pomigliano, in cui una grande azienda è riuscita a scardinare regole, consuetudini, contratti. Si tratta della CAI/Alitalia salutata al tempo come un gruppo di patrioti. “La cordata subentrata all’ex compagnia di bandiera annovera una lunga lista di piccole grandi deroghe alle regole, che vanno dal mancato rispetto di una serie di accordi sottoscritti al momento dell’accordo per l’acquisto, all’inosservanza di leggi nazionali ed europee nate per tutelare i lavoratori e le lavoratrici” riferisce Bernardo de Vries, presidente di Family Way, un’associazione di piloti ed assistenti di volo attiva nella difesa dei diritti dei lavoratori ed in prima linea per la conciliazione tra famiglia e lavoro. “Nel momento del passaggio da Alitalia a CAI tutti i lavoratori sono stati costretti a firmare una nuova lettera di assunzione che conteneva una clausola, diretta a quei lavoratori e lavoratrici che avrebbero potuto usufruire dell’articolo 53 della legge 151 sulla maternità e cioè l’esonero dal lavoro notturno, in cui lo stesso lavoratore rinunciava a questo diritto”. In particolare l’articolo 53 del D.L. 151 stabilisce che il genitore in coppia con figlio minore di tre anni, quello single con figlio convivente fino a 12 anni e il lavoratore o lavoratrice con a carico un soggetto disabile non possono essere obbligati a prestare lavoro notturno. Una assistente di volo, di cui per ovvie ragioni non faremo il nome, racconta che “al momento della firma della lettera di assunzione non c’era con noi né un sindacalista né un rappresentante dei lavoratori. Accanto alla lettera di assunzione c’era un altro documento che spiegava che, nel caso in cui non avessi firmato, avrei perso anche il diritto alla cassa integrazione”. In pratica la firma del contratto era subordinata ad una rinuncia di un diritto. Alcuni lavoratori firmano coscientemente, e quindi sotto ricatto, altri firmano addirittura senza rendersi conto, perché la clausola in questione ha una formulazione piuttosto ambigua: “Ella dichiara, nell’assoluto rispetto della legislazione vigente, la propria disponibilità ad effettuare la prestazione lavorativa su turni di lavoro che comportino avvicendamenti sull’intero arco della giornata lavorativa, ivi compresi eventuali pernottamenti”. E’ evidente come l’“assoluto rispetto della legislazione vigente” abbia tratto in inganno più di un lavoratore/lavoratrice. Alla consegna dei primi turni di lavoro infatti comincia la battaglia. Ancora de Vries racconta che “le mamme che si sono ritrovate con turni che prevedevano 4-5 pernottamenti di seguito fuori casa si sono presentate all’ufficio del personale pensando di dover ripresentare la documentazione che attestava i requisiti ad essere esonerate dal lavoro notturno ma l’ufficio inizialmente non ha voluto neanche accogliere la documentazione e quando l’ha accolta, a fronte delle forti proteste, non l’ha neanche protocollata”. I lavoratori e le lavoratrici si accorgono di quanto firmato, decidono di organizzarsi e nasce la mailing list “Le inCAIvolate”. Da questa esperienza si costituirà Family Way. Ricorsi, interrogazioni parlamentari, in sede italiana ed europea, lettere, interpellanze, le lavoratrici in questi anni le hanno messe in campo proprio tutte per vedersi riconosciuto il proprio diritto ma sembra di sbattere contro un muro di gomma. Le risposte, da quelle parlamentari a quelle avute dal Ministero Pari Opportunità, convergono tutte sulla tesi CAI di “specificità del modello organizzativo dell’azienda”. In data 26 giugno 2009, in seguito a due audizioni in Commissione Infanzia che, a detta di Family Way devono aver dato luogo a pressioni, CAI decide di ‘concedere’ alle lavoratrici con figli al di sotto di tre anni e di bambini disabili l’esonero dal lavoro notturno. Ma si tratta di una concessione unilaterale dell’azienda e non del riconoscimento di un diritto.
La lotta delle lavoratrici madri CAI continua.

Per informazioni: www.familyway.it

Testimonianze di due lavoratrici – assistenti di volo CAI
 


“Io e il mio compagno siamo entrambi assistenti di volo CAI. Siamo una famiglia allargata e abbiamo 4 figli. Tutti minorenni ma sopra i tre anni. L’organizzazione familiare è complicatissima. Quando mi viene consegnato il turno di lavoro io sono costretta ad usare i miei permessi e le malattie bambino per spezzarlo e consentire una mia presenza in famiglia. Però è evidente che mi gioco i permessi perché non mi viene riconosciuto un diritto. E in più mi gioco una parte dello stipendio perché nel nostro nuovo contratto la parte di stipendio fisso è molto piccola e invece aumentiamo il salario in base alle ore volate; una sorta di cottimizzazione. Questo riduce drasticamente il reddito quando usufruiamo di permessi. Un’altra cosa che mi risulta insopportabile è che mi ritrovo a volare, nello stesso aeromobile, nello stesso equipaggio, con assistenti di volo che sono stati ‘acquisiti’ da Airone e non da Alitalia godono quindi dell’esonero notturno.”

 


“In tema di tutela della maternità e della paternità sul POSTO di LAVORO, ci sono due realtà... distinte e lontane.... Quella legislativa (L. 151 a tutela della maternità e della paternità e L.198 contro le discriminazioni) che tutela il lavoratore SULLA CARTA in tutto e per tutto e poi c’è la disastrosa realtà contrattuale, dove sindacato e azienda, ignorando completamente la legislazione, sottoscrivono contratti, lettere di assunzione, accordi extra contrattuali, discriminanti. Il sindacato avendo sottoscritto clausole vessatorie non può più difendere il lavoratore facendo causa all’azienda. Il lavoratore è costretto così a rivolgersi ai tribunali del lavoro, da solo e a sue spese. Dopo 2 anni di lotte per l’esonero dal lavoro notturno, dopo aver interessato tutte le istituzioni preposte alla tutela, abbiamo ottenuto una concessione a discrezione dell’azienda. Abbiamo un contratto che non nomina e non tutela economicamente la maternità e questo sta disincentivando le donne a fare figli. Il salario in maternità viene calcolato sulla base dello stipendio fisso che è molto basso in quanto la maggior parte del nostro reddito viene dalle ore che passiamo in volo. E’ più conveniente ammalarsi o andare in cassa integrazione volontaria con reintegro del posto di lavoro a spese dei contribuenti che fare un bambino! Questo è quello che succede da noi.”





(27 Novembre 2011)

Il tempo è adesso

Cristina Fernández, che con ogni probabilità verrà rieletta, è davanti alla sfida finale con il modello neoliberale

“No me la creo”. Non ci credo. In un paio di discorsi ufficiali, pronunciati nelle ultime settimane, Cristina Fernández de Kirchner, forse per scaramanzia - ma conoscendola come politica avvertita pensiamo sapendo di affrontare un momento delicato -, ha così sottolineato come sta intraprendendo le prossime, comunque rischiose, ultime settimane di campagna elettorale. Vincitrice indiscussa delle primarie svoltesi in agosto che hanno portato alle urne 19 milioni di elettori, Kirchner si è imposta con oltre il 50% dei consensi con il suo “Frente para la victoria”, che rappresenta l’ala sinistra del partito peronista. Staccati di 38 punti il candidato neo-liberista Ricardo Alfonsìn, che ha raccolto solo il 12,7% dei voti, così come Eduardo Duhalde che ne ha ottenuti solo il 12,6%.
Con questi dati le prossime presidenziali del 23 ottobre sembrerebbero una formalità salvo che non accada l’imponderabile, che verosimilmente non accadrà.
Chi per tanto tempo ha sottovalutato i meriti politici di questa donna, tentando di screditarla, dipingendola come un fantoccio nelle mani del marito, si è dovuto ricredere e ammettere che la sua schiacciante vittoria alle primarie è prima di tutto dovuta al contenuto della sua gestione governativa. Anche chi legge la sua affermazione come conseguenza della debolezza dell’opposizione commette un errore di valutazione. Gli argentini non hanno scelto ‘il meno peggio’ ma hanno premiato un governo che ha assicurato in questi anni una crescita economica, una forte espansione dei consumi, la creazione di posti di lavoro, un incremento degli stipendi e delle pensioni, l’ampliamento della copertura previdenziale e la pensione per le casalinghe, e l’implementazione di alcune politiche di argine alla povertà come ad esempio l’Assegnazione Universale per i figli (Asignación Universal por Hijo), un sussidio che si concede a chiunque abbia un figlio minore di 18 anni che stia frequentando regolarmente la scuola.
A queste misure di carattere sociale ed economico si sommano una serie di nuove norme sulla comunicazione, sui diritti civili, sul ruolo dello Stato come la Legge sui mezzi di comunicazione che limita i monopoli nell’informazione destinando al settore privato un terzo dei media, e lo stesso volume al pubblico e al no profit, la Legge sul ’Matrimonio Igualitario’ che stabilisce la possibilità di sposarsi per individui dello stesso sesso alle stesse condizioni delle coppie eterosessuali, la politica sui diritti umani, la nazionalizzazione dell’AFJP - i fondi privati di gestione delle pensioni -, e della compagnia Aerolineas Argentinas e la vocazione subcontinentale della politica estera.
Più ombre emergono invece dalle politiche rivolte specificamente alle donne. Malgrado l’approvazione della Legge contro la violenza di genere, frutto di un lavoro partecipato tra organizzazioni sociali e istituzioni, e il recente decreto che proibisce la pubblicazione su qualsiasi mezzo di comunicazione di annunci a sfondo sessuale, salutato positivamente dalle organizzazioni che lottano contro la tratta e la prostituzione, resta aperta la questione della salute sessuale e riproduttiva e in particolare dell’interruzione volontaria di gravidanza. Il rapporto del 2010 di Human Right Watch ha messo in evidenza i numerosi ostacoli che devono affrontare le donne argentine che hanno necessità di accedere ai servizi di salute sessuale ai quali hanno diritto: anticoncezionali, sterilizzazione, aborto dopo una violenza. E la questione dell’IVG resta la più discussa: in Argentina è legale abortire soltanto in due eventualità: in caso di pericolo di salute o in caso di gravidanza dovuta a violenza su una donna incapace di intendere e di volere. In tutti gli altri casi l'aborto è negato e le conseguenze penali riguardano tanto chi lo pratica quanto la donna stessa. Nonostante ciò, il 40% delle gravidanze sono interrotte da aborti, praticati perlopiù in modo insicuro, con la conseguenza che una delle principali cause di morte materna nel paese è dovuta proprio a questo.
Ma se Cristina è all’apice del suo successo, paradossalmente sta viaggiando anche su una linea sottile e pericolosa che potrebbe portarla ad adagiarsi, non tanto sulla situazione di relativa tranquillità in cui si trova, ma sul modello dominante nel quale fino ad ora si è barcamenata, con discreti successi, ma senza riuscire a dare la spallata finale. Le più straordinarie sfide e i più grandi successi del kirchnerismo si sono prodotti quando Nestor Kirchner (precedente presidente e marito di Cristina Fernández, morto improvvisamente nell’ottobre scorso) e poi la stessa Fernández hanno avuto il coraggio di “abbandonare le prescrizioni del modello di accumulazione instaurato sotto il primato del neoliberismo dalla fine degli anni ‘80” come sottolinea Atilio Boròn. Questo ‘modello di accumulazione’, malgrado gli scossoni delle politiche kirchneriste degli ultimi anni, è tuttavia dominante nel paese e causa strutturale dell’ancora alto tasso di povertà e sperequazione, basandosi prevalentemente sul predominio del capitale finanziario, sul sistema fiscale squilibrato a favore delle rendite finanziarie, sul saccheggio delle ricchezze naturali, sull’agricoltura estensiva e basata sulla monocultura, sul lavoro precario. Questi tratti distintivi, sorti negli anni delle dittature militari e del menemismo, continuano, infatti, a caratterizzare il panorama sociale ed economico argentino.
Il “No me la creo” di Cristina fa ben sperare che la Presidenta abbia compreso che la lotta non è ancora finita e che davanti a sé ci sia forse il lavoro più difficile: quello di introdurre, approfittando della crisi mondiale del modello capitalista, un cambio di marcia profondo di cui il paese ha bisogno non solo per il suo benessere materiale ma anche per continuare a percepirsi dentro un progetto possibile di cambiamento radicale. L’alternativa è rimanere impantanati nella palude neoliberale e chiudere definitivamente con le speranze progressiste. Cristina, oltre che sulla sua forza politica e personalità potrà contare su un grande sostegno e affetto popolare e sulla debolezza di un Parlamento che non avrà la forza di interferire. Il tempo però è poco: un anno a partire dal suo nuovo mandato presidenziale. Nel 2013 infatti si inizierà a parlare di elezioni politiche e di li a poco scoppierà la lotta per la successione presidenziale, non potendo lei stessa ricandidarsi. Il tempo è adesso.

(17 Ottobre 2011)

Il doppio inganno

Snaturato il principio costituzionale, oggi con ‘lavoro’ non si coniuga più la parola ‘diritto’ ma disoccupazione, precariato, deregulation



Quando i Padri e le Madri costituenti scrissero l’articolo 1 della nostra Magna Carta certamente non pensavano che sarebbe andata a finire così. Quell’unicum della nostra Costituzione, “fondata sul lavoro”, è stato travolto da una realtà di disoccupazione, precariato, deregulation, continua erosione dei diritti e delle tutele, disuguaglianze sociali e sperequazione salariale. Nei fatti esattamente il contrario di quanto i costituenti avevano immaginato quando attraverso l’art. 1 avevano espresso la volontà di proteggere coloro che vivono del proprio lavoro; quando nell’art. 3 avevano sottolineato la necessità che la Repubblica rimuova “gli ostacoli di ordine economico e sociale (…)”; quando nell’art. 4 avevano posto le basi di un vero e proprio “diritto al lavoro”. Ma, paradosso nel paradosso, chiediamoci se non sia stata proprio la visione filosofica e celebrativa del lavoro contenuta nella nostra Costituzione - un luogo mitico capace di generare esso stesso ‘umanità’, lo spazio privilegiato in cui i cittadini avrebbero trovato il senso ultimo della propria esistenza - ad aver contribuito alla situazione in cui siamo finiti. Perché la ‘malattia’ del lavoro odierno non è solo figlia della crisi economica che stiamo vivendo e tanto ci spaventa; il lavoro ‘ammalato’ è intimamente collegato alla stessa patologia della crisi. E lo è perché, nel momento in cui è diventato un orizzonte di senso della vita, ha smesso di essere al servizio dell’uomo ed è stato risucchiato acriticamente nel meccanismo della crescita illimitata tollerando, in nome di se stesso, che gli uomini e le donne e il pianeta sul quale viviamo, fossero imprigionati in una funzione meramente strumentale subordinata alla crescita economica. Chi si è fatto travolgere da questa visione non ha potuto più sottrarsi alla dottrina produttivista diventando esso stesso prodotto della sua occupazione. Non solo un’alienazione nel lavoro preconizzata da Marx ma anche un’alienazione da lavoro che si manifesta quando la dimensione produttiva viene assunta come interezza della propria vita a scapito degli altri aspetti. E a questo meccanismo, soprattutto, non sono stati capaci di sottrarsi il sindacato, ammaliato dalle dottrine produttiviste, e in generale il movimento socialista che, pur operando una critica dei diktat neoliberisti, non è riuscito a liberarsi dal mito del progresso come crescita economica. Non meravigliamoci dunque se le ricette per uscire dalla crisi sembrano inadeguate e provvisorie. La crisi offre l’opportunità di riposizionare anche il ruolo del lavoro nelle nostre società ma a patto di una ridiscussione radicale del modelli di riferimento, come andiamo dicendo da tempo.
Noi donne, che con entusiasmo e passione ci siamo avvicinate al mondo del lavoro con l’illusione di poter esprimere tutta la nostra creatività, dentro questo meccanismo siamo rimaste schiacciate. E adesso siamo molto arrabbiate, spesso tristi, oppresse per una promessa che non si è mantenuta.
Nel corteo dello sciopero generale del passato 6 settembre grandissima era quantità di striscioni che rimandava a diverse realtà dei ‘lavoratori della conoscenza’. E dietro quei cartelli i volti delle donne; un rilevante protagonismo femminile che fa capo ad un processo di femminilizzazione del lavoro, ormai in atto da decenni, e che è prodotto principalmente della transizione da un capitalismo industriale ad un capitalismo cognitivo che ha le sue radici nella ‘valorizzazione’ delle attitudini relazionali, di attenzione e di cura che da sempre sono proprie delle donne. E qui si manifesta il doppio inganno per il genere femminile: da una parte l’illusione della parità, che naufraga però di fronte alle disuguaglianze di carichi di lavoro, di salari, di prospettive di carriera, e dall’altra quella della differenza, dove le intelligenze e le sensibilità relazionali vengono espropriate al servizio del mercato globale. Tutto ciò è possibile per le condizioni di estrema ricattabilità a cui si è sottoposti e al violento processo di precarizzazione che finisce per trasformarsi in precarietà esistenziale. E in una prospettiva di analisi che non può non essere globale - perché, non dimentichiamo, la quota di lavoratori che con le loro famiglie vivono con meno di 2 dollari al giorno è pari al 40% della forza lavoro mondiale, sono meno del 15% i lavoratori coperti da qualche forma di protezione sociale, il lavoro minorile riguarda 306 milioni di bambini, di questi almeno 8 operano in situazione di schiavitù, il lavoro forzato concerne 12 milioni di persone – assume un’importanza fondamentale il fenomeno migratorio, appendice proprio di quella femminilizzazione del lavoro, e luogo di scambio della cura e del lavoro riproduttivo. Le donne sono quindi forzate a questi cardini: precarietà, lavoro di cura che diventa lavoro produttivo e divisione cognitiva del lavoro. Una combinazione micidiale a cui il nostro welfare, prevalentemente basato sul familismo, non trova soluzione e anzi rende ancora più vischioso. E’ forse questa profonda frattura, identitaria prima che sociale, che fa si che le donne italiane abbiano un bassissimo tasso di occupazione e di natalità, che la scolarizzazione e l’istruzione siano in aumento a fronte di una scarsa presenza nel mondo del lavoro, che in moltissime abbiano ‘scelto’ di non cercare più lavoro. Questo il motivo per cui non bastano più le semplici ricette riformiste che ripropongono uno schema che ha già dimostrato di non funzionare, per gli uomini e le donne. E, da parte nostra, c’è bisogno di coraggio nel riconoscere le contraddizioni di una teoria economica e di una condizione lavorativa e pensare, per tutti, un percorso ‘differente’.

(ottobre 2011)

C'è un tempo per... Il punto di vista di Michela Marzano

Nel mondo occidentale la lentezza è percepita come un disvalore. Soprattutto le donne sembrano vittime dell'idea che 'il fare tanto e in fretta' sia un dovere.

 
Ogni santo giorno ci svegliamo e comincia la corsa; la giornata si apre di fronte ai nostri occhi come un baratro in cui ‘velocemente’ precipitiamo risucchiati dalle centomila cose da fare. Aspettiamo le ferie per poterci ricaricare dal tour de force quotidiano ma spesso anche il tempo della vacanza ci riserva file e folle che ci fanno ripiombare nell’usuale corsa ad ostacoli.
Chiediamo ad una filosofa, Michela Marzano, cattedra di Filosofia Morale all’Università Parigi 5, di aiutarci a districare la contraddizione che ci vede catturati nelle rete della velocità anche se desidereremmo andare ‘piano piano’. E scopriamo quale è la sua ‘strategia’ dei tempi diversi.
Comincerei con una riflessione generale sul termine lentezza e sul significato che attribuiamo a questa parola: quando un individuo viene definito ‘lento’ è sempre fatto con un’accezione negativa. Eppure la lentezza è uno spazio di riflessione e di approfondimento, quindi non necessariamente negativa, anzi…
Nella società contemporanea la parola ‘lentezza’ è desueta ed è utilizzata per qualificare tutto ciò che vogliamo indicare come negativo. Siamo una società che valorizza la velocità anche a scapito di quelli che possono essere i danni collaterali che questa inevitabilmente porta con sé e soprattutto senza considerare quello che si perde con la rapidità. La velocità è sicuramente una qualità ma la sua natura è fortemente condizionata dalle situazioni nelle quali si utilizza; a forza di fare, pensare, reagire velocemente si fanno molti errori e si perde di vista il fatto che per poter avere un contatto con la propria interiorità, costruire relazioni profonde e durature ci vuole la lentezza. Bisogna poter lentamente avere la possibilità di fare ciò che si desidera, bisogna lentamente conoscere le persone che si incontrano e lentamente stabilire una relazione di fiducia. ‘Chi va piano va sano e va lontano’: perdendo la lentezza abbiamo smarrito anche la consapevolezza della necessità di andare lontano.
Le donne sono stritolate in questa disputa lentezza/velocità. Le statistiche sulle ore di lavoro giornaliero ci dicono che in media lavorano molto di più degli uomini e quindi anche più velocemente. Non si parla più di rispetto di tempi della persona ma abbiamo inventato una nuova terminologia: la ‘conciliazione’ dei tempi.
E’ il grande problema di tutti e delle donne in particolare. Dovendo vivere più giornate in ventiquattro ore, dovendo accumulare una serie di obblighi e responsabilità, le donne sono costrette ad agire e pensare con grandissima velocità e si infilano in un tunnel in cui perdono l’intensità delle relazioni e degli eventi che vivono, per non parlare della salute. Arriva un momento in cui le energie finiscono e le donne si trovano sole; dovrebbe esserci allora un tempo del recupero che spesso viene però negato.
I tempi delle donne in effetti sarebbero ‘tempi lenti’. Mi riferisco ai nostri ritmi fisiologici, ad esempio il ciclo mestruale che è scandito da una durata prestabilita o il momento della gravidanza che è il ‘tempo lento’ per eccellenza in cui avvengono dei processi straordinari che solo in quel periodo possono accadere.
E’ vero anche se ultimamente anche questi processi sono sempre più ravvicinati, proprio per la vita che viviamo, con conseguenze facilmente immaginabili anche sulla salute. Un conto è scrivere un articolo rapidamente o andare a fare la spesa di corsa ma quando è il nostro stesso corpo ad essere preso dalla velocità i disturbi riguardano il livello fisico e fisiologico.
C’è poi la contraddizione tra il tempo che viene vissuto velocemente e i nostri corpi sui quali vorremmo cancellare i segni del tempo passato.
E’ un fenomeno molto comune che si verifica perché siamo schiacciati dalle ingiunzioni contraddittorie. Da un lato siamo indotti ad agire velocemente e dall’altro ci viene trasmessa la necessità di fermare il tempo sull’unico punto sul quale invece bisognerebbe lasciarlo passare, cioè l’immagine del proprio corpo. Da un lato bisogna seguire il corso delle cose senza mai ‘perdere’ il tempo e dall’altro c’è l’obbligo contraddittorio di fermare il livello fisico, di non tollerare i segni del tempo. Ciò è impossibile; si corre per bruciare le tappe come se non fossero mai state attraversate e si vuole restare fermi come in una foto istantanea.
La filosofia, che è la sua passione e la sua professione, ha bisogno di una riflessione che passa obbligatoriamente attraverso la lentezza del pensiero. Come vive lei, che è una donna dinamica e perfettamente integrata nel nostro sistema di vita, questa dicotomia.
Vivo questa dualità in maniera difficile ma ho cercato di trovare una soluzione è che è quella della divisione del tempo. Ho creato un tempo differente per me in cui leggo, rifletto e scrivo, in isolamento; è uno spazio personale completamente separato dal momento ‘dell’attività’ in cui insegno, faccio conferenze, viaggio. Nel mio ‘isolamento,’ non rispondo al telefono, non apro le e-mail, non mi rendo disponibile per convegni e dibattiti perché ci sono periodi dell’anno in cui cerco di ritirarmi per poter riflettere. Ciò mi è necessario perché altrimenti non avrei la possibilità di pensare, di approfondire determinati temi. Questo isolamento mi permette, negli altri momenti, di vivere in contatto più stretto con il mondo. In fondo questa ‘teoria’ dei tempi ‘differenti’ c’è sin dall’Ecclesiaste che dice “Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo per nascere e un tempo per morire…”. La scansione del tempo esiste da sempre, quello che abbiamo perso è la possibilità di avere ‘tempi diversi’. Vogliamo fare tutto nello stesso momento, e questo è il problema. Dobbiamo rassegnarci all’impossibilità di conciliare tutto. Anzi, penso che l’idea della conciliazione sia profondamente sbagliata perché bisogna poter avere la possibilità di vivere pienamente i tempi diversi.
Ci sono dei luoghi privilegiati che l’aiutano ad ‘isolarsi’.
Quando si tratta di scrivere non c’è per me spazio migliore che quello della mia casa. E’ il luogo in cui lavoro, scrivo e penso perché mi da la possibilità di isolarmi dal mondo ma di avere tutti gli strumenti che mi permettono l’elaborazione. Quando ero giovane passavo molto tempo in biblioteca adesso preferisco comprare i libri, anche se sono molto cari e occupano tanto spazio, e, nella mia casa, interagisco con i libri e con le idee.
Cosa rappresentano per lei le vacanze?
La vacanza è per me un ulteriore altro tempo in cui né faccio, né penso. E’ il tempo della ricarica in cui mi dedico ai miei familiari.

(18 Luglio 2011)

All'inizio erano le madri.Intervista a Luciana Percovich

Solo la trasformazione dell'immaginario può rompere gli schemi interpretativi esistenti e farci rinominare la realtà.

Tra la confusione del vivere in uno spazio e in un tempo che non sentiamo più adeguati a rispondere alle domande di senso sulla nostra umanità e il cammino per cercare di intravedere una realtà che ancora non conosciamo, abbiamo fatto una chiacchierata con Luciana Percovich, docente della Libera Università delle Donne di Milano, appassionata di sacro femminile e pioniera della riscoperta delle radici femminili nelle civiltà storiche.
“Non uso mai il termine matriarcato; penso provochi una reazione di rigetto perché percepito come ‘società in cui comandano le donne’; ossia una società fondata sulle stesse strutture del patriarcato ma in cui il potere è in mano alle donne. E questo anche se l'etimologia del termine matriarcato ci riporta piuttosto a mater (madre) e arché (inizio) e la sua corretta interpretazione sarebbe ‘all'inizio erano le madri'.”
Che cosa si intende allora per società matriarcali o matrifocali, matrilineari?
Le società matriarcali, matrifocali o matrilineari hanno alla loro base dei clan o famiglie allargate il cui punto di riferimento è l'anziana della famiglia. Generalmente in questo tipo di organizzazione sociale c’è una condivisione delle proprietà e dei mezzi di produzione o comunque il passaggio di questi beni avviene per via femminile. I grandi vantaggi di queste società, detti in termini sintetici e prendendo a paragone il nostro presente, consistono nel fatto che le figlie non sono costrette ad abbandonare la famiglia materna, non ci sono problemi di gravidanze indesiderate, di figli illegittimi, di depressione post-partum, di aborti, perché bimbi e bimbe sono sempre bene accetti, e l'allevamento viene fatto oltre che dalle madri dalle sorelle e dalle nonne. Gli anziani sono curati e godono di grande rispetto. I maschi hanno prevalentemente il ruolo di ponte con l'esterno e la figura maschile per i bambini non è quella del padre biologico ma quella dei fratelli della madre.
In genere però queste strutture sociali appartengono alla preistoria, dal Paleolitico all’età del Bronzo. Quali sono i passaggi che ci hanno fatto abbandonare questo tipo di struttura sociale ed approdare a quello che chiamiamo il patriarcato? E perché è così difficile liberarci dal patriarcato?
Il processo di trasformazione dalle culture matrifocali al patriarcato è durato qualche millennio, perché ha incontrato non poche resistenze. Si è trattato di una guerra combattuta sia con le armi che con i miti e i simboli, per realizzare una rivoluzione nell'immaginario simile a quella che anche ora è necessario fare. L'immaginario infatti dà forma alla dimensione più profonda dell'umano, dove trovano risposta le domande fondamentali sul senso della vita e orienta, spesso inconsapevolmente, le nostre azioni.
I sistemi patriarcali, per riuscire a imporsi, hanno dovuto sopprimere o capovolgere la sapienza millenaria delle società matrilineari, hanno s-naturato le simbologie del passato, colonizzandole con valori diversi, basati sulla lotta contro la madre e contro la natura, viste solo come risorse da dominare e sfruttare. Dall'Illumismo in poi, inoltre, le idee di riforma o di rivoluzione delle società si sono basate sul presupposto che bastasse cambiare i rapporti sociali di produzione per provocare il cambiamento. Ma ogni progetto di società che consideri la vita spirituale delle persone e le religioni solo come sovrastrutture è destinato a fallire miseramente, come anche la storia del ‘900 lo dimostra.
Cosa ci possono dire questi modelli del passato?
Che dobbiamo rinunciare alla logica della gerarchia e dello sviluppo, inteso come una linea retta, e recuperare la dimensione circolare e ciclica. I modelli patriarcali che, dal punto di vista temporale sono venuti dopo alle precedenti società matrifocali, non rappresentano di fatto una ‘evoluzione' o il ‘progresso’, semmai il contrario. La sapienza dei primi miti racconta come la creazione non sia un gesto avvenuto all'inizio del tempo, una volta per tutte, ma che il principio di creazione viene rimesso in moto tutte le volte che, attivamente, l'umanità riesce a stabilire rapporti di equilibrio anziché di sopraffazione o sfruttamento.
Le società del passato possono costituire un modello non nella riproposizione di un ordine sociale estinto ma contribuendo a spezzare quell'immaginario negativo che è stato loro calato addosso e riportando alla luce l'idea dell'equilibrio, tra umani e natura e tra esseri viventi tout court. Le culture matriarcali non sono obnubilate dall'idea dello sviluppo, del progresso, dell’altrove come meta; nel ‘qui e ora' occorre lavorare per creare l’ armonia tra i vari bisogni e dimensioni. Sono società pacifiche, non basate sulla competizione e sull'accumulazione; hanno molto presente il senso del limite.
La Dea Madre rappresentava proprio questo principio regolatore e ciclico, non era tanto il femminile inteso come corpo che dà la vita, ma era soprattutto considerata come Colei che dà le regole, le forme attraverso cui una società possa svilupparsi in armonia. Con l'irruzione del Dio monoteista, esterno alla creazione, si ruppe questa visione del ‘divino nella natura’, introducendo svalutazione e controllo su tutto ciò che è materia e corporeità, proprio la visione che oggi ci mostra evidenti tutti i danni che ha prodotto.
C’è un’esperienza molto attuale, quella delle nuove costituzioni di Bolivia ed Ecuador che hanno messo nel loro prologo il principio del Sumak Kawsay, parola quechua traducibile come 'buon vivere' inteso come capacità di vivere in armonia con il mondo circostante, natura ed esseri viventi. Il Sumak Kawsay è un principio generatore, da cui scaturiscono i criteri alla base del patto sociale, e ordinatore, da cui derivano le norme che regolano la convivenza. E' un esperimento interessante perché, portato avanti a livello statuale pur con grandissime difficoltà, propone la ricerca di un modello alternativo.
Esperienze come quelle a cui ti riferisci sono fondamentali proprio perché, pur con le grandi difficoltà che incontrano nella loro attuazione, vanno nella direzione di suscitare delle visioni alternative e provocare uno strappo nell'immaginario. La stessa rottura è stata operata, in senso contrario, quando al concetto di Dea Madre si è sostituito quello di Dio Padre. La Dea Madre rappresentava quel principio generatore e regolatore; Dio Padre ha introdotto e sostenuto invece le istanze di controllo e di dominio su tutto ciò che è materiale, corpi, piante, natura.
Una sorta di sorveglianza che rompe l'autonomia e il vivere in armonia di quei corpi. Questo mi sembra uno dei tratti fondamentali di ciò che ancora oggi, in maniera sempre più marcata, stiamo vivendo: il biopotere.
Certo, questa è la hybris del pensiero occidentale, e del pensiero scientifico in genere, che sembra voler dire alla natura: “Tu sbagli. E’ l’uomo/dio che dà i modelli e se ne sei fuori, sei espulso dal biopotere”.
Le donne hanno recuperato la dimensione della sacralità perduta e il legame con il tempo della matrifocalità attraverso alcuni gesti quotidiani; ma incentivando il genere femminile a potenziare questo modello non si rischia di marginalizzarlo ancora di più?
Il problema non è la marginalizzazione ma il saper mettere in discussione in maniera profonda la sensatezza dei modelli patriarcali. Quando ciò avviene, non si ha più il desiderio di lottare per guadagnare un posticino all'interno di questo sistema proprio perché lucidamente se ne vede la perfetta follia. Mentre diventa fondamentale il gesto di ricentrarsi su di sé in quanto donne: è un atto fondativo che restituisce senso e fa cambiare la percezione di ciò che abbiamo intorno e introiettato dentro di noi. Significa liberarsi dalle dipendenze e osservare con distacco ciò che ci circonda. Si tratta di spostare completamente la centratura della società da un mondo basato sui valori maschili della competizione e del consumo per entrare invece nella dimensione della relazione con ciò che ci circonda e con i nostri limiti. La preoccupazione di autoemarginarsi è propria di chi investe ancora molto sulla politica tradizionale.
Che senso ha un gesto individuale? Il percorso verso il cambiamento non dovrebbe essere fatto in forme di partecipazione che siano anche collettive e che prendano forma insieme ad altri?
Sono molte le persone che si stanno ponendo queste domande. In questo momento, non sentiamo la necessità di renderci visibili più di tanto: da una parte perché ciò che è visibile viene rapidamente fagocitato e trasformato in merce, e dall'altro perché siamo in una fase di ricerca, di sperimentazione. Si tratta di modificare gli obiettivi di una comunità ma anche le modalità di relazione tra gli individui. Tutte cose che nel mondo della politica tradizionale sono impraticabili.
Siamo in transizione tra un modello che non è più adeguato e un divenire che ancora non c'è. Dobbiamo ripensare e rinominare una realtà che ancora non conosciamo. Quali sono le pratiche che ci possono orientare in quest'epoca di cambiamenti?
Innanzitutto sarebbe importante riportare il sacro nel quotidiano per ridare valore a tutto quello che prendiamo nella relazione con la natura, per renderci conto che non può andare avanti il saccheggio dell’acqua, dell’aria, delle piante e degli animali. Che il lavoro non ha come scopo unicamente la produzione di denaro, ma che è un modo per manifestare le nostre potenzialità creative. Poi condividere e praticare modelli di relazioni rituali che restituiscano a ciascuna/o la propria ‘anima’ e ci permettano di rimetterci in sintonia con i ritmi delle stagioni, del nascere-crescere-invecchiare-morire, e quindi tornare ad una dimensione che è altro dal tempo lineare. I gruppi lavorano in cerchio, creando consapevolmente uno spazio extra-ordinario che permette di stabilire relazioni diverse tra le persone, lontane dai modelli della gerarchia e del dominio. Per cambiare occorre lavorare su di sé e insieme alle altre/i.

(20 Giugno 2011)

Rivoluzionare la scienza. Intervista ad Elisabetta Donini

Definire il complesso rapporto tra donne e conoscenza scientifica.



Fisica critica e storica delle scienze Elisabetta Donini fa parte del Cirsde - Centro Interdipartimentale di Ricerche e Studi delle Donne dell’Università di Torino. Si è occupata di politica della diversità, relazioni attraverso i conflitti, costruzione di culture di pace, cura dell’ambiente, critica dei modelli di sviluppo. Le abbiamo chiesto di parlarci del rapporto tra donna e scienza, e in particolare, nel tentativo di rompere i paradigmi conoscitivi dominanti, della possibilità di un'autonomia del genere femminile nei modelli scientifici.
Lei ha dichiarato: “Non desidero affatto che ci siano più donne, ragazze, bambine, educate all'entusiasmo della scienza, se simultaneamente non si riesce a cambiare cosa significa conoscenza scientifica”. Ci spiega meglio cosa intende?
Credo che occorra distinguere tra due modi principali di porre il problema: l’uno si articola come una questione di “donne e scienza” e mira a far cadere gli stereotipi e i vincoli socioculturali che per secoli hanno ostacolato, se non impedito, l’accesso delle donne al mondo della conoscenza scientifica. L’altro parla invece di “genere e scienza”: attraverso l’analisi delle caratteristiche di oggettività e universalità ascritte alla scienza, intende mostrare che quest’ultima è stata plasmata secondo le forme mentali e le relazioni con il mondo esterno che erano proprie dei suoi “padri fondatori” e che almeno nella storia dell’Occidente hanno connotato l’identità di genere maschile. Come scriveva negli anni ’80 del secolo scorso Sandra Harding, il primo è un approccio riformista: facciamo sì che alle donne vengano riconosciute possibilità pari a quelle degli uomini di essere scienziate. Il secondo è un approccio rivoluzionario: a partire dalla critica di genere sviluppata da tante studiose femministe, mettiamo in discussione che i modi della conoscenza scientifica siano necessariamente quelli affermatisi come tali e diamo invece spazio ad altri processi cognitivi, riconoscendo ad esempio che ogni sapere è non già “oggettivo”, ma “situato”, nel senso che dipende dal punto di vista da cui si colloca il soggetto; oppure rinunciando alla pretesa del distacco tra soggetto e oggetto, per valorizzare piuttosto le relazioni di interdipendenza. Sono queste le trasformazioni cui mi parrebbe importante che si dedicassero le donne interessate alla scienza, anziché premere per un più largo accesso alle professioni scientifiche, accettandole così come oggi sono modellate e conformandosi ad una impostazione che storicamente è stata segnata dalla dominanza del maschile. Già Virginia Woolf scriveva che “la scienza a quanto pare non è senza sesso, è un uomo, un padre e per di più infetto”.

Le tecniche di manipolazione genetiche e in particolare le tecnologie legate alla procreazione sono un campo in cui il dominio scientifico maschile si esercita sulle donne e sulla natura; in particolare sul rapporto tra donna e natura. Che impatto ha questo sull'identità femminile?

Tutta la scienza moderna, sin dalle sue origini tra ’500 e ’600, è stata costruita in funzione non soltanto della conoscenza, ma anche dell’intervento sulla natura, per assoggettarla al dominio dell’uomo, come scriveva esplicitamente Francesco Bacone. Oggi tale processo ha raggiunto forme sempre più spinte e quelle contemporanee sono opportunamente chiamate tecnoscienze, proprio perché tendono a manipolare per trasformare, assai più che a osservare per conoscere e i loro oggetti di studio sono degli artefatti, piuttosto che delle entità date in natura. La sostituzione dell’artificiale al naturale riguarda ormai anche gli organismi umani, lungo una strada che coinvolge donne e uomini, sia come soggetti sia come oggetti delle sperimentazioni. Certo, nel caso della procreazione tecnologicamente assistita è l’identità di genere delle donne quella che ne risulta più profondamente toccata, perché rende la maternità un processo di produzione cui concorrono molti attori (e attrici: sono numerose le ricercatrici e le ginecologhe che si occupano di fecondazione artificiale). Penso che questo incida sul rapporto tra donne e natura, contribuendo ad esaltare quel porsi in atteggiamento di dominio e manipolazione che – come già accennavo – è caratteristico dell’intreccio tra le scienze moderne e contemporanee e l’identità di genere secondo cui si è forgiato il maschio-occidentale-bianco. A mio parere, che vi siano donne che fanno proprie queste modalità rientra nel più vasto problema dell’egemonia esercitata dalla linea di sviluppo che è riuscita a prevalere sino a globalizzarsi, affermandosi come univocamente necessaria (e per ciò stesso giusta: il rapporto tra scienza e società è impregnato di giudizi di valore).

Le donne che fanno riferimento ad un movimento di trasformazione dell'esistente hanno qualcosa da dire sulla scienza? Come si costruisce l'identità di genere delle donne nel mondo scientifico?
“Cambiare il mondo” era il cuore del progetto neofemminista della seconda metà del ’900 e il movimento delle donne ha generato filoni di riflessione, critica e azione nei campi più vari, compreso quello della scienza, in quanto nella generale presa di coscienza della differenza di genere anche la scienza venne riconosciuta nella sua essenza non-neutra. Di qui, però, non segue automaticamente che le donne che si dedicano a un lavoro scientifico esprimano modi di conoscenza diversi da quelli dei loro colleghi; anzi, il fatto stesso che permanga il modello epistemologico secondo cui il sapere scientifico, poiché oggettivo, non dipende da chi lo produce, dovrebbe rendere irrilevante la circostanza che si tratti di donne o di uomini. C’è dunque una forte pressione a conformarsi; d’altro canto, ci sono anche le situazioni concretamente vissute e i rapporti di potere: è soprattutto nel rivendicare i propri diritti di parità che varie scienziate pongono il problema nei termini di quell’impostazione riformista che ho descritto sopra come “donne e scienza”. Tuttavia, in alcune discipline, scienziate intenzionalmente partecipi della critica femminista hanno avviato anche qualche cambiamento rivoluzionario: a fine ’900, nel suo Has Feminism Changed Science? Londa Schiebinger ha riportato casi interessanti in medicina, biologia, primatologia.

(giugno 2011)

Mapuches. La gente della terra

Un popolo di resistenti diviso tra due paesi. Una donna, Capo politico, che ha messo la lotta al primo posto

 
 
La storia di Lonko (che nella lingua dei mapuche significa Capo) Juana Calfunao, leader di una comunità Mapuche del Sud del Cile, è molto simile a quella di tantissimi indigeni appartenenti a questa nazionalità che, nell'opposizione ai governi, soprattutto quello argentino e cileno, che di fatto non riconoscono l'autonomia dei loro territori, sono da anni in lotta e spesso finiscono in carcere. Anche Lonko Juana Calfunao ha conosciuto varie volte il carcere, la tortura, gli abusi, come ci racconta in questa intervista; siamo riusciti a contattarla durante un suo soggiorno in Svizzera dove si è recata, in libertà provvisoria, per rivedere sua figlia, di soli 13 anni, che ha ricevuto asilo politico nel paese elvetico e che non vedeva la madre da 4 anni.

Chi sono i mapuche e cosa chiedono come popolo?
Siamo un popolo originario che ha vissuto da più di 3000 anni nel territorio adesso compreso tra Cile e Argentina. Il nostro territorio è riconosciuto come terra dei Mapuche da trattati e accordi che abbiamo sia con l'Unione Europea che con lo stato cileno. Il Cile non rispetta questa patti ed è entrato con violenza nelle nostre terre; questo ha scatenato un grande conflitto, che è ancora in corso. Noi non accettiamo la presenza di imprese multinazionali che stanno sfruttando le nostre risorse naturali e inquinando i nostri territori. Alla nostra resistenza il governo cileno risponde con l'incarcerazione del nostro popolo.

Lonko Juana, lei è un capo politico nella sua comunità. Ci può spiegare come svolge questo ruolo, anche come donna?

Sono orgogliosa che la mia comunità mi abbia scelto come leader e voglio ricordare che i mapuche sono un popolo che ha una mentalità molto aperta e che già secoli fa ci sono state donne che sono arrivate ad incarichi di prestigio, anche più di me. Io mi sono distinta in questo incarico per la tenace e strenua resistenza che ho esercitato verso lo stato cileno: sono stata incarcerata e torturata; ho subito abusi e vessazioni come persona, come donna e come autorità politica. Ma non sono pentita né ho rammarico per nulla perchè so che sto difendendo una cultura e il diritto all'esistenza di un popolo. Essere Lonko è un incarico importante e delicato del quale vado fiera e che esercito per volere e per la difesa della mia gente.

Il suo impegno politico ha avuto ripercussioni forti su tutta la sua famiglia. Lei si trova in Europa per rivedere sua figlia. Come è stato questo incontro e cosa significa per questa ragazza vivere lontana dalla sua terra e dalla sua famiglia?

E' una situazione molto difficile. Sono stata costretta a mandare mia figlia fuori dal paese perchè era per lei troppo rischioso rimanere. Nel momento in cui ci siamo riviste mia figlia ha avuto uno shok emotivo e siamo stati costretti a ricoverarla in un ospedale di Ginevra. E' in cura con un medico che si è occupato di persone che hanno subito o hanno assistito a torture. Lo stato cileno ha distrutto completamente la mia famiglia; questi gravi avvenimenti sono accaduti durante il governo di Michelle Bachelet.

Il 24 marzo lei è stata ricevuta e ha parlato durante una seduta del Parlamento europeo a Bruxelles. Cosa ha raccontato e cosa ha chiesto in quell'occasione?
Ci sono stati due eventi all'interno del Parlamento. Prima un incontro con Michelle Bachelet nel contesto di una riunione che aveva come argomento le politiche verso le donne. Ci siamo incontrate in un corridoio e ci siamo salutate da pari a pari; anche io infatti sono un'autorità politica. In questa occasione le ho ricordato che se avesse messo in pratica in Cile le belle parole pronunciate durante il suo discorso i mapuches, e io stessa, non avrebbero sofferto le violazioni che continuamente patiscono. Michelle Bachelet è una donna che è stata torturata e che si è traformata in una torturatrice.
Nella seduta del parlamento, durante la quale ho tenuto un lungo discorso, ho chiesto all'Europa un pronunciamento forte sulle violazioni delle multinazionali nel nostro territorio e che sanzioni lo stato cileno per il mancato compimento dell'accordo 169 dell'OIT – Organizzazione Internazionale del Lavoro, convenzione internazionale dedicata ai popoli indigeni, la più importante mai elaborata in difesa dei loro diritti.


Il termine Mapuche deriva dalla fusione di due termini: Che, gente e Mapu, terra, gente della terra e si riferisce agli abitanti originari del Cile Centrale e Meridionale e del Sud della Argentina. In spagnolo sono anche indicati come araucanos (Araucani). Secondo i dati del censimento del 2002 sarebbero 604.349, vale a dire il 4% della popolazione Cilena, mentre circa 300.000 vivono sull'altro versante delle Ande, in Argentina. La resistenza di questo popolo in difesa delle proprie radici continua, soprattutto contro le multinazionali (tra cui la Benetton), che operano su territori legati alla tradizione spirituale Mapuche, e contro le leggi anti-terrorismo nate durante l'epoca della dittatura di Pinochet e che invece vengono ancora usate, di frequente, contro i capi della comunità Mapuche.

Per seguire le vicende del popolo Mapuche: www.ecomapuche.com

(30 Maggio 2011)

L’orgoglio del maschio fra paura e mistero. Intervista ad Eduardo Galeano

Visioni maschili

 
 
Un narratore, un visionario; uno che ci ha raccontato che l'utopia serve non tanto a realizzare un sogno o un'idea ma a farci continuare a camminare.
Non uno storico, né un sociologo, non un antropologo, né uno psicanalista; per discutere delle relazioni uomo-donna e verificare se davvero esiste una 'questione maschile' abbiamo scelto di parlare con Eduardo Galeano, scrittore capace di trascinarci nei meandri dei sogni più reali e delle realtà più magiche nel modo più potente e eversivo, come i grandi narratori latinoamericani ci hanno insegnato.

Il tema della prostituzione, fenomeno antichissimo, è scoppiato nuovamente in Italia con lo scandalo sessual-politico che ha coinvolto il Primo Ministro. Le donne e il loro comportamento sessuale e sociale sono sempre protagoniste quando si affronta questo fenomeno ma in realtà la prostituzione chiama in causa, o almeno dovrebbe farlo, ancora di più gli uomini, in quanto clienti. Da tutta questa situazione percepisco un'incapacità dei maschi di gestire in maniera paritaria la propria sessualità e le proprie relazioni con le donne. É proprio in questo senso che le chiedo se esiste una 'questione maschile'?

Chissà se il fatto di comprare una donna, anche sapendo che è una menzogna, anche se solo per un momento, non permetta a certi uomini di credere di salvarsi dalla 'paura' esistenziale che li assilla. Se lei è un oggetto, una 'cosa' che si può acquistare, o almeno affittare, smette di essere un pericoloso mistero. In questo mistero che sfugge alla comprensione risiede il nucleo di quella che tu chiami la 'questione maschile'.

Questa incapacità di gestire il 'mistero' scatena spesso la violenza...
Ecco perchè la violenza si moltiplica in tutto il pianeta, includendo, ovviamente, anche quei paesi che si autodefiniscono civilizzati. E gli uomini che uccidono dicono, o pensano: “L'ho uccisa perchè era una cosa mia”, utilizzando così anche la più ripugnante espressione della proprietà privata. Nemmeno l'uomo più virile ha l'onestà di confessare: “L'ho uccisa per paura”. Questa è la verità, occulta, umiliante per l'orgoglio del maschio dominatore e per tutto il suo sistema di simboli di potere: falli, missili, lance. Questa è la verità: la paura del maschio di fronte alla donna senza paura.

Questa paura di cui lei parla, ci dice che l'identità maschile è sempre più in crisi. Gli uomini sembrano bloccati nei loro ruoli tradizioni e in stereotipi che non corrispondono affatto ai loro reali bisogni e sentimenti. Ma da dove ha origine?

Uno dei miti più antichi e universali, che ritroviamo in luoghi anche molto distanti tra di loro, è il mito della 'vagina dentata': è presente in Scandinavia così come nel bacino amazzonico. Gli uomini temono che la donna sia il luogo in cui si entra ma non si esce, o perlomeno non si esce interi, uguali a prima. Io non credo nel racconto dell'invidia del pene, il mito che Sigmund Freud ha inventato per consolare noi uomini. Credo però nel mito della 'vagina dentata': leggenda che descrive e simboleggia il panico che noi maschi sentiamo di fronte al mistero che rappresenta la donna nell'atto sessuale. Nel momento in cui torniamo alle origini, in cui entriamo nel luogo da cui siamo venuti al mondo si affollano le domande: torneremo interi? Dove ci porterà questa selva impenetrabile che crediamo di poter penetrare? Saremo gli stessi dopo? Conserveremo la nostra integrità o ci faremo cambiare per sempre dall'incontro? La femmina che il maschio vorrebbe mangiare è la femmina che lo mangerà.


Finestra su una donna
Quella donna è una casa segreta.
Nei suoi meandri conserva voci e nasconde fantasmi. Nelle notti d'inverno riscalda. Chi entra in lei, dicono, non ne esce mai più. Io attraverso il profondo fossato che la circonda. In quella casa verrò abitato.
In lei mi aspetta il vino che mi berrà.
Molto dolcemente busso alla porta e aspetto.

da "Parole in cammino" di Eduardo Galeano
(11 Aprile 2011)

Rom e artigiane. La relazione e gli affetti

L'esperienza di lavoro del gruppo di donne 'Insieme Zajedno'

 
Durante la guerra della ex Iugoslavia, negli anni ’90, un gruppo di donne romane si impegna nel sostegno ai bambini bosniaci e alle loro madri, sfollati nei campi profughi della Slovenia: un impegno che oltre al contributo economico creò dei legami di affetto e di amicizia molto forti. Con la fine della guerra i profughi rientrarono nei loro paesi ma l'impegno nel cercare la relazione di quel gruppo di donne non si è fermato. Nasce così, nel 1998, 'Insieme Zajedno', un'associazione dedicata all’infanzia e alle donne più deboli per offrire un aiuto concreto, dignità, giustizia sociale e diritti umani. L’esperienza di Insieme Zajedno, iniziata in Bosnia Erzegovina, e poi consolidata attraverso progetti in Macedonia, in Kossovo, in Moldavia, in Iraq, dal 2006 si è trasferita a Roma dove, nel cuore di San Lorenzo è nato il 'Laboratorio Manufatti delle Donne Rom', progetto di microcredito per l’auto-impiego di donne rom attraverso la realizzazione di accessori originali per l’abbigliamento e la casa. Un luogo che offre ad un gruppo di rom bosniache la possibilità di lavorare ma non solo. In uno spazio che colpisce per il suo tocco 
 
 
tipicamente femminile, ogni mattina Cristina, Renata, Francesca e Dzanuma, tirano su la serranda e si dedicano al cucito, antica arte che ci riporta all'intreccio di legami, al mettere insieme, alla creazione. Nei locali, arredati a misura di donna, si lavora, si mangia, si studia, si crescono i bambini - i due figli di Dzanuma - ci si scambia l'esperienza e si fanno progetti. Il luogo, nato come posto di formazione, è presto diventato qualcos'altro: spazio di aggregazione interculturale dove il lavoro insieme ai formatori ha dato la possibilità di affrontare e condividere le problematiche lavorative, di decidere insieme le strategie economiche, stimolando la socialità e l’integrazione in modo naturale e rendendo più facile anche l’apprendimento della lingua italiana. Il 'Laboratorio Manufatti Donne Rom' si prefigge di diventare un luogo dove 'dal basso' si annulli la discriminazione socio-lavorativa legata al popolo Rom, alle donne Rom in particolare: Renata ha preso la patente e adesso ha una piccola automobile che la rende indipendente, le ragazze stanno cercando una casa, hanno ripreso a studiare, non hanno più come orizzonte unico un marito e i figli e la vita nel campo, Dzanuma ha un lavoro con un contratto a tempo indeterminato. “È stata dura - racconta Cristina
 
 
 
 
Rosselli Del Turco che dell’associazione 'Insieme Zajedno' è colei che vive ogni giorno gomito a gomito con le donne rom - ma i risultati che abbiamo ottenuto sono una grande soddisfazione. Il nostro è un lavoro fatto nella quotidianità e nella condivisione di vita e proprio in questo, credo, risieda il nostro successo. Crediamo nella relazione e negli affetti. È un progetto piccolo che però ha cambiato radicalmente la vita delle persone coinvolte e questo era quello che a noi interessava”. E il successo dell'iniziativa si legge anche nei progetti portati avanti dal gruppo: le stesse donne rom sono diventate formatrici e stanno insegnando il mestiere ad un gruppo di donne somale rifugiate. La sfida per il futuro è l'indipendenza; la creazione di una propria impresa e il confronto con il mercato del lavoro.

Il Laboratorio si trova a Roma in via dei Bruzi n. 11/c, è aperto dal lunedì al sabato dalle ore 9:00 alle 14:00 - tel. 3471580818

Per contatti: crirosse@tin.it
info@manufattidonnerom.it  - www.manufattidonnerom.org
info@insiemezajedno.org  - www.insiemezajedno.org

 

(14 Febbraio 2011)

Raccontare le contraddizioni. Intervista ad Ascanio Celestini

'Il racconto non è solo un modo per tessere la propria storia, ma anche per tesserla con quella degli altri'.

foto di Fabio Zayed


Si parla di memoria e viene subito in mente il discorso pubblico su questa, la sua istituzionalizzazione, l'appiattimento delle emozioni, l'omologazione dei ricordi. Ma la memoria non è statica - come ci racconta Ascanio Celestini in questa intervista - è innanzitutto un'azione, una maniera di costruire la propria identità; per questo non c'è una memoria unica ma tante memorie in contraddizione tra di loro.

Che cosa è e a che cosa serve la memoria?

Mentre la memoria del computer è una cosa che sta in un posto come un libro in una libreria, un oggetto al quale possiamo delegare chiedendogli di ricordare ciò che noi dimentichiamo con la consapevolezza che in ogni momento possiamo tirarlo fuori e leggerne un paio di pagine, la nostra memoria non è né una cosa né un luogo. La nostra memoria è un’azione: ricordare. Non c’è una memoria nobile che riguarda la grande storia e una volgare che ci fa ricordare dove abbiamo parcheggiato la macchina. La memoria, proprio perché non è una cosa, ma un’azione, è tutt’uno col nostro comportamento quotidiano. Noi ricordiamo guardando e camminando, ricordiamo i sapori e gli odori mentre mangiamo e respiriamo. In un certo senso noi siamo la nostra memoria.

Negli ultimi 50 anni la memoria, considerata come possibilità di tramandare la Storia attraverso le piccole storie familiari, è andata scomparendo. Mi spiego meglio: non ci sono più le tradizioni familiari, i racconti dei nonni; forse quella degli attuali quarantenni è stata l'ultima generazione che ha ancora un legame con questo tipo di tradizione e questo senso di identità ed appartenenza. Questa memoria identitaria che passa attraverso il racconto con che cosa è stata sostituita?

Potrei dire provocatoriamente che la memoria scompare perché c’è la scuola. Mio nonno contadino aveva un padrone che gli imponeva di arare un campo, ma quel padrone non aveva la conoscenza per ararlo da solo. Il “saper fare” apparteneva completamente a mio nonno. Oggi un bambino entra a scuola all’età di sei anni, ma spesso già a due anni incomincia a frequentare l’asilo nido. La maggior parte di questi bambini frequenteranno le scuole superiori e molti usciranno dall’università almeno a venticinque anni. In tutti questi anni la famiglia avrà un ruolo importante, ma la fonte del sapere verrà individuata nella scuola. Questo meccanismo inevitabilmente delegittima la memoria familiare che, in confronto alla scuola (e quindi ad una cultura che viene considerata più alta, complessa e ricca di quella familiare) diventa folcloristica e noiosa. Per mio nonno contadino, invece, la scuola era la famiglia e i compagni di lavoro. Non vedeva la memoria familiare come un mondo altro rispetto al resto della sua vita. Altro da se era il padrone dal quale, però, non aveva niente da imparare e alla cui memoria non era per niente interessato.

Sui grandi eventi fondativi del nostro paese (Resistenza, 150 anni dell'Unità) non c'è possibilità di una memoria condivisa; al massimo si può condividere la retorica della memoria in cui il ricordo è cancellato da un generico accomodamento in cui tutti hanno ragione. Perché non c'è possibilità di verità nella memoria della nostra nazione?

Le nostre città sono piene di piazze, scuole e strade intitolate a Mazzini che dallo stato italiano era considerato un terrorista. Per quanto riguarda la resistenza conosco tanta gente che si dichiara pacifista, ma non considera una contraddizione l’ammirazione nei confronti dei partigiani che sparavano e uccidevano. Ovviamente solo la retorica delle parate e dei discorsi ufficiali può mettere insieme queste contraddizioni, ma noi sappiamo bene che le contraddizioni restano anche se vengono negate. In più rispetto alla memoria c’è da dire che non può esistere condivisione perché ognuno di noi ha un punto di vista e una storia personale differente. Proprio perché la memoria è l’atto del ricordare non possiamo servirci di una memoria istituzionale come di una marmellata del supermercato.

La storia ha spesso cancellato il femminile; la memoria, intesa come il racconto orale che costruisce appartenenza, ha invece riscattato le donne. Hai raccontato di tua nonna, che 'faceva i racconti delle streghe' che non erano fiabe ma realtà e possibilità di esplicitare un desiderio altrimenti represso, per la loro funzione di narrare una figura di donna emancipata. Ci puoi dire qualcosa di più su questo?

Sisto Quaranta è uno dei mille rastrellati del quartiere Quadraro di Roma nell’aprile del ‘44. Quando gli chiesi “perché non avete mai raccontato di questo grande rastrellamento?” mi rispose “io l’ho sempre raccontato, ma non sono mica uno scrittore.. faccio l’elettricista”. Per quanto riguarda le donne ci troviamo nella stessa condizione: per secoli alla maggior parte di loro non è stato consentito di uscire dalla cucina se non per andare al bordello. Ma tanto nel bordello che nella cucina le donne hanno continuato a vivere e raccontarsi. Mia nonna raccontava storie di streghe che sembravano fiabe di magia, ma lei le considerava storie vere. La strega nella nostra tradizione non è cattiva, è semplicemente potente. Col suo potere può fare del male o del bene. Tiene nascoste le sue capacità, ma queste la emancipano e la pongono al di sopra degli uomini della sua famiglia e del suo paese. Eppure questa emancipazione non passa attraverso l’imitazione dell’uomo, nel senso che la strega non acquista potere o libertà perché si veste come l’uomo, impara a fare lavori ritenuti maschili o frequenta l’osteria. La sua è una liberazione che resta tutta nella sfera femminile. In un certo senso mia nonna raccontava storie di emancipazione femminile e trovava una sorta di emancipazione nel raccontarle. Non a caso erano storie che una donna raccontava ad altre donne, infatti gli uomini (tranne i bambini) non assistevano mai anche perché mia nonna narrava quasi sempre in cucina, nei giorni di festa durante la preparazione dei pasti.

foto di Fabio Zayed


Ci apprestiamo a celebrare i 150 anni dall'Unità d'Italia. Rischiamo la retorica, rischiamo di riscattare una memoria che sia solo consolatoria e nostalgica. Come si potrebbe lavorare su questo tema del nostro passato?

Raccontando le contraddizioni che sono straordinarie. Per esempio il risorgimento repubblicano ha vissuto un momento entusiasmante nei giorni della Repubblica romana del 1849 e non furono gli austriaci o i borboni a riconsegnare la città al papa che era scappato a Gaeta, bensì i francesi che dai romani erano considerati compagni perché repubblicani. Si racconta che Garibaldi ne arrestò trecento e invece di incarcerarli vennero portati in piazza e festeggiati.

Hai privilegiato, nel tuo percorso, il punto di vista di un'umanità chiusa (sia in senso metaforico che letterale) nelle istituzioni totali (la fabbrica, il manicomio, il call center) in cui il potere detiene l'assoluto controllo dei corpi e delle menti. Possono essere la memoria individuale, il vissuto soggettivo, l'esperienza interiore, attraverso la forma del racconto, una forma di resistenza al potere?

Certamente. Raccontare significa rimettere in fila i frammenti del proprio vissuto e in un certo senso raccontarsi è una maniera per produrre la propria identità. Inoltre il racconto non è solo un modo per tessere la propria storia, ma anche per tesserla con quella degli altri.

(7 febbraio 2011)