mercoledì 8 febbraio 2012

I diritti sono universali. Intervista a Giuliana Sgrena

“non si può accettare l’intollerabile in nome della tolleranza”.

Già si era occupata di questo tema con il suo primo libro, nel 1994, “La schiavitù del velo” in cui trattava la questione dell’integralismo islamico visto da donne egiziane, marocchine, algerine, raccogliendo i loro scritti. Con “Il prezzo del velo” ha realizzato un reportage, frutto di una lunga permanenza nei principali paesi caratterizzati dalla presenza della religione e della cultura islamica, in cui racconta di un processo di re-islamizzazione che utilizza la religione a fini politici e che potrebbe annullare i diritti della donna per molto tempo. Il rischio più grande, sottolinea Sgrena è rendersi complici di questi processi, ignorandoli in nome di un presunto relativismo culturale.

Dopo gli avvenimenti francesi si è nuovamente aperto in Italia il dibattito sul velo...
In Italia abbiamo, dal 1975, una legge, nata negli anni di piombo, che impedisce di circolare a volto coperto ed è vigente anche una norma che stabilisce che nei documenti non si possa apparire con una parte del capo coperta. Ritengo che questi provvedimenti dovrebbero essere fatti rispettare da tutti e che non ci sia bisogno di ulteriori leggi perché, a differenza della Francia, l’Italia non è un paese laico. Basterebbe quindi applicare le norme che abbiamo e farle rispettare a chi viene nel nostro paese. Certo, nel momento in cui si chiede alle persone che vengono a vivere in Italia di osservare le nostre leggi dovremmo garantire anche a loro tutti i diritti di cui noi godiamo. Questo è un punto essenziale.

Nella tua esperienza, cosa rappresenta il velo per una donna musulmana?
Molte cose. C’è chi lo porta perché obbligata, anche se in realtà l’obbligo c’è solo in Arabia Saudita e Iran; in altri posti il velo viene imposto con la forza, con una coercizione determinata da condizionamenti legati all’ambiente sociale o religioso. Ci sono poi luoghi in cui il velo viene prescritto perché trova la sua giustificazione nel Corano, anche se questo corrisponde solo ad una interpretazione conservatrice e non ad un precetto religioso. Alcune donne portano il velo perché aderiscono ad una visione fondamentalista dell’Islam; si tratta di un velo ideologico che ritengo rappresenti l’unica vera scelta consapevole. Negli altri casi è imposto in modo violento o subdolo. Penso che in questo momento storico la lotta contro il velo sia molto più percepita nei paesi musulmani che, ad esempio, in Europa o in occidente dove la tendenza è quella di accettare delle discriminazioni in nome della tolleranza. E ciò è molto dannoso.

Non ti sembra che, anche in conseguenza dell’ondata islamofoba che abbiamo vissuto in occidente dopo l’11 settembre, il velo sia diventato anche uno segno di appartenenza, di identità?
Certo. Alcune donne pensano che per contrastare questa islamofobia sia importante affermare la propria appartenenza all’Umma, alla comunità di fedeli, anche manifestandolo attraverso l’abbigliamento e quindi indossando il velo. Questa appartenenza assume anche delle caratteristiche di conflitto culturale e di rifiuto della globalizzazione a cui si contrappone, idealmente, un Islam globale. In generale però questa confusione tra appartenenza e aggressione occidentale è più sentita qui in occidente di quanto non lo sia nei paesi arabi. Le donne, in particolare, non si fanno tirare dentro questa disputa e non confondono la pressione occidentale con l’esercizio dei loro diritti. C’è anzi una coscienza del fatto che spesso l’intervento occidentale ha coinciso con una riduzione dei loro diritti come è avvenuto ad esempio in Iraq, non formalmente ma nei fatti.

Alla luce di quello che ci siamo dette come pensi sia corretto impostare un dialogo con le donne arabe?
Non credo che in questo momento esista un dialogo tra le due realtà. C’è stata una fase in cui era molto più avanzato. Adesso prevale tra le donne occidentali, anche le femministe, un relativismo culturale che fa definire femministe anche le donne che sono super velate e che difendono la sharia perché pensano sia uno strumento attraverso il quale possa passare il loro potere politico. Mi è capitato di partecipare ad incontri, organizzati da forze progressiste, in cui si parlava di democrazia facendo riferimento a principi universali ma che non utilizzavano lo stesso metro di giudizio quando il tema del dibattito veniva spostato sulla condizione femminile; in questo caso ci si appellava ad una visione fondamentalista e retrograda finendo per accettare qualsiasi cosa in nome della tolleranza. Bisogna pensare che queste donne sono come noi e rivendicano dei diritti che sono universali; non si può accettare l’intollerabile in nome della tolleranza.

(19 aprile 2010)

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