mercoledì 8 febbraio 2012

ARGENTINA: Dopo la “notte neoliberale”, il cambiamento

scritto insieme a Gianni Tarquini

Dieci anni fa in Argentina infuriavano disoccupazione, fallimenti, disperazione: il tramonto dell’illusione della ricchezza facile lasciava rovine e morti sul terreno. Le protestedel 19 e 20 dicembre 2001, nelle quali persero la vita 40 manifestanti, chiusero tragicamente un ciclo di recessioni, indebitamento pubblico e caduta libera del PIL, sfociato nella salita verticale degli indici di povertà e nell’ultimo, disperato tentativo di frenare il tracollo con il blocco dei conti correnti (il cosiddetto “corrallito”), che impediva ai cittadini di accedere ai propri risparmi.Il dramma di quelle giornate segnò la fine della lunga notte neoliberale vissuta dal Paese che tre anni prima il Direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Camdessus, aveva definito “un esempio da seguire” per la sua diligenza nel recepire le ricette di quella istituzione finanziaria e per avere smantellato le politiche sociali e le più importanti aziende pubbliche costruite negli anni della crescita economica.
Per demolire le conquiste sociali argentine c’erano voluti alcuni decenni, attraversati anche da feroci dittature militari. Alcuni analisti sostengono che il processo di dismissione del welfare si possa far risalire al colpo di Stato del 1955 contro Juan Domingo Perón, ma più specificamente e sistematicamente l’offensiva “neoliberale” iniziò con il golpe del 1976 e successivamente si sviluppò con i governi democratico-liberisti, che adottarono le politiche suggerite dagli USA e dal Fondo Monetario Internazionale. In questo lungo periodo crebbe a dismisura l’indebitamento con Stati ed istituzioni straniere e, per guadagnare il consenso dei settori economici, fu acquisito il debito di molte imprese private. Contemporaneamente, si incominciò a favorire l’acquisto di prodotti fabbricati all’estero ed a demolire il buon tessuto industriale creato nel periodo peronista. L’aumento esponenziale delle importazioni alimentò la fuoriuscita di capitali verso l’estero e favorì la deindustrializzazione, facendo lievitare il debito pubblico e la disoccupazione.L’Argentina bruciava o svendeva i suoi beni pubblici, passando dall’essere la decima potenza economica mondiale, il granaio capace di accogliere milioni di migranti in fuga da guerre e carestie, a Paese con indicatori economici e sociali da Terzo mondo: il 52% della popolazione sotto la soglia di povertà, il 71% di denutrizione infantile, il più alto debito pubblico pro-capite del pianeta, la classe media colpita duramente dalla crisi. Negli anni tra il 1998 e il 2002 gli aeroporti e i consolati stranieri si riempirono di giovani che volevano emigrare, Questo era, dieci anni fa, l’esito dell’ubriacatura liberista.
Il Paese, però, seppe infine imboccare una coraggiosa via d’uscita: nella fase di transizione venne azzerato il pagamento del debito e fu rotta la convertibilità tra il peso (la moneta nazionale) e il dollaro, che era stata fissata 1 a 1 da una legge del 1991. I passi successivi furono altrettanto decisivi, con la svalutazione della moneta e gli accordi di ristrutturazione del debito in quantità e in tempi di restituzione che permisero una riattivazione economica interna e un risparmio di denaro che altrimenti sarebbe andato alle banche straniere creditrici. A queste scelte politiche si deve la vittoria dell’esponente della sinistra peronista Néstor Kirchner nelle elezioni presidenziali del 2003 e di sua moglie Cristina Fernández nel 2007 e nel 2011[1]. Da allora, per nove anni, il Paese è cresciuto di circa il 94%, la più alta crescita di tutto l’emisfero occidentale, con un ritmo tra il 7 e il 10% annuo (escluso il 2009): è stata avvìata una redistribuzione della ricchezza verso le fasce più deboli della popolazione e gli indici di povertà, indigenza e disoccupazione sono stati portati sotto il 10%.
Il ‘caso’ argentino è particolarmente interessante perché la rapida uscita dalla crisi è stata possibile grazie ad una ferma riorganizzazione economica ed alla decisione di non pagare percentuali importanti di debito pubblico. Senza chiedere l’aiuto delle istituzioni finanziarie internazionali e senza ricorrere alle classiche politiche liberiste per ad attirare i capitali stranieri. Il Paese è stato salvato opponendosi alle richieste di “aggiustamenti” fiscali e di non stanziare fondi per spese di carattere sociale, (considerate dai liberisti una dispersione “inutile” di risorse pubbliche). I risultati sono stati positivi.
La sociologa Norma Giarranca, l’economista Julio Gambino, il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglizpropongono una lettura dell’attuale crisi europea alla luce di quanto accaduto in Argentina e sottolineano i guasti provocati dalle “ricette” che il FMI e la Banca Centrale Europea propongono (impongono) ancora ai Paesi in difficoltà. Certo, l’Argentina è ricca di prodotti naturali esportabili e dispone di grandi estensioni di terreni coltivabili (a differenza della Spagna, del Portogallo, dell’ Irlanda e dell’ Italia); tuttavia, l’inflazione è ancora alta. Come recentemente ha rilevato l’economista Miguel Bonasso, “la crescita non coincide con lo sviluppo”, dato che è dovuta alle esportazioni delle commodities (soprattutto di soia e mais), il cui modello produttivo impoverisce presto i suoli, limita la diversificazione agroindustriale e favorisce la concentrazione di latifondi privati. L’attuale sistema economico non può evitare la marginalizzazione di una buona parte della popolazione, né il “clientelismo politico” e, in un futuro non lontano, si manifesteranno nuove, acute tensioni sociali. Ma non si deve dimenticare che nel corso dell’ultimo decennio si è verificato un grande e positivo cambiamento: il Paese, oggi, svolge un’importante ruolo politico a livello continentale (e non solo) [2] e la sua straordinaria crescita ha aperto nuove opportunità. Interessante è uno studio del CEPR (Center for economic and policy research) [3], effettuato da Mark Weisbrot, Rebecca Ray, Juan A. Montecino, Sara Kozameh e terminato nel 2011, che, attraverso un’approfondita analisi degli indicatori economici e sociali, perviene alla conclusione che i miglioramenti degli indici macroeconomici, sociali e sanitari argentini sono reali e notevoli, come anche gli investimenti in politiche sociali e gli interventi redistributivi. E paragona la situazione dei paesi Europei in difficoltà con quella dell’Argentina, rilevando che il cammino intrapreso da quest’ultima, rifiutando di pagare una parte consistente del debito per liberare risorse a favore della spesa pubblica, dovrebbe essere preso in considerazione come una opzione possibile anche nel nostro vecchio continente.

[1] Vedi Cassandra, 4/2011 (nuova serie on – line), “Avanti verso il cambiamento” di Gianni Tarquini.
[2] Come l’aver bloccato, insieme agli altri Stati latinoamericani, in particolare Brasile e Venezuela, l’avvìo del mercato comune con gli USA, l’ALCA, chiesto da Bush, nel corso del vertice di Mar de la Plata(2005) e sviluppato politiche di apertura verso nuovi acquirenti internazionali, come la Cina, e di integrazione continentale, come la recenta nascita del CELAC (Comunidad de Estados de Latinoamérica y el Caribe) del 2 dicembre 2011.
[3] Il CEPR ha sede a Washington e riunisce studiosi di diversi Paesi. Il documento sull’Argentina è stato tradotto in spagnolo a dicembre e non è disponibile in italiano.
[1] Vedi Cassandra numero 4 del 2011, “Avanti verso il cambiamento” di Gianni Tarquini.

Nessun commento:

Posta un commento