mercoledì 8 febbraio 2012

Il doppio inganno

Snaturato il principio costituzionale, oggi con ‘lavoro’ non si coniuga più la parola ‘diritto’ ma disoccupazione, precariato, deregulation



Quando i Padri e le Madri costituenti scrissero l’articolo 1 della nostra Magna Carta certamente non pensavano che sarebbe andata a finire così. Quell’unicum della nostra Costituzione, “fondata sul lavoro”, è stato travolto da una realtà di disoccupazione, precariato, deregulation, continua erosione dei diritti e delle tutele, disuguaglianze sociali e sperequazione salariale. Nei fatti esattamente il contrario di quanto i costituenti avevano immaginato quando attraverso l’art. 1 avevano espresso la volontà di proteggere coloro che vivono del proprio lavoro; quando nell’art. 3 avevano sottolineato la necessità che la Repubblica rimuova “gli ostacoli di ordine economico e sociale (…)”; quando nell’art. 4 avevano posto le basi di un vero e proprio “diritto al lavoro”. Ma, paradosso nel paradosso, chiediamoci se non sia stata proprio la visione filosofica e celebrativa del lavoro contenuta nella nostra Costituzione - un luogo mitico capace di generare esso stesso ‘umanità’, lo spazio privilegiato in cui i cittadini avrebbero trovato il senso ultimo della propria esistenza - ad aver contribuito alla situazione in cui siamo finiti. Perché la ‘malattia’ del lavoro odierno non è solo figlia della crisi economica che stiamo vivendo e tanto ci spaventa; il lavoro ‘ammalato’ è intimamente collegato alla stessa patologia della crisi. E lo è perché, nel momento in cui è diventato un orizzonte di senso della vita, ha smesso di essere al servizio dell’uomo ed è stato risucchiato acriticamente nel meccanismo della crescita illimitata tollerando, in nome di se stesso, che gli uomini e le donne e il pianeta sul quale viviamo, fossero imprigionati in una funzione meramente strumentale subordinata alla crescita economica. Chi si è fatto travolgere da questa visione non ha potuto più sottrarsi alla dottrina produttivista diventando esso stesso prodotto della sua occupazione. Non solo un’alienazione nel lavoro preconizzata da Marx ma anche un’alienazione da lavoro che si manifesta quando la dimensione produttiva viene assunta come interezza della propria vita a scapito degli altri aspetti. E a questo meccanismo, soprattutto, non sono stati capaci di sottrarsi il sindacato, ammaliato dalle dottrine produttiviste, e in generale il movimento socialista che, pur operando una critica dei diktat neoliberisti, non è riuscito a liberarsi dal mito del progresso come crescita economica. Non meravigliamoci dunque se le ricette per uscire dalla crisi sembrano inadeguate e provvisorie. La crisi offre l’opportunità di riposizionare anche il ruolo del lavoro nelle nostre società ma a patto di una ridiscussione radicale del modelli di riferimento, come andiamo dicendo da tempo.
Noi donne, che con entusiasmo e passione ci siamo avvicinate al mondo del lavoro con l’illusione di poter esprimere tutta la nostra creatività, dentro questo meccanismo siamo rimaste schiacciate. E adesso siamo molto arrabbiate, spesso tristi, oppresse per una promessa che non si è mantenuta.
Nel corteo dello sciopero generale del passato 6 settembre grandissima era quantità di striscioni che rimandava a diverse realtà dei ‘lavoratori della conoscenza’. E dietro quei cartelli i volti delle donne; un rilevante protagonismo femminile che fa capo ad un processo di femminilizzazione del lavoro, ormai in atto da decenni, e che è prodotto principalmente della transizione da un capitalismo industriale ad un capitalismo cognitivo che ha le sue radici nella ‘valorizzazione’ delle attitudini relazionali, di attenzione e di cura che da sempre sono proprie delle donne. E qui si manifesta il doppio inganno per il genere femminile: da una parte l’illusione della parità, che naufraga però di fronte alle disuguaglianze di carichi di lavoro, di salari, di prospettive di carriera, e dall’altra quella della differenza, dove le intelligenze e le sensibilità relazionali vengono espropriate al servizio del mercato globale. Tutto ciò è possibile per le condizioni di estrema ricattabilità a cui si è sottoposti e al violento processo di precarizzazione che finisce per trasformarsi in precarietà esistenziale. E in una prospettiva di analisi che non può non essere globale - perché, non dimentichiamo, la quota di lavoratori che con le loro famiglie vivono con meno di 2 dollari al giorno è pari al 40% della forza lavoro mondiale, sono meno del 15% i lavoratori coperti da qualche forma di protezione sociale, il lavoro minorile riguarda 306 milioni di bambini, di questi almeno 8 operano in situazione di schiavitù, il lavoro forzato concerne 12 milioni di persone – assume un’importanza fondamentale il fenomeno migratorio, appendice proprio di quella femminilizzazione del lavoro, e luogo di scambio della cura e del lavoro riproduttivo. Le donne sono quindi forzate a questi cardini: precarietà, lavoro di cura che diventa lavoro produttivo e divisione cognitiva del lavoro. Una combinazione micidiale a cui il nostro welfare, prevalentemente basato sul familismo, non trova soluzione e anzi rende ancora più vischioso. E’ forse questa profonda frattura, identitaria prima che sociale, che fa si che le donne italiane abbiano un bassissimo tasso di occupazione e di natalità, che la scolarizzazione e l’istruzione siano in aumento a fronte di una scarsa presenza nel mondo del lavoro, che in moltissime abbiano ‘scelto’ di non cercare più lavoro. Questo il motivo per cui non bastano più le semplici ricette riformiste che ripropongono uno schema che ha già dimostrato di non funzionare, per gli uomini e le donne. E, da parte nostra, c’è bisogno di coraggio nel riconoscere le contraddizioni di una teoria economica e di una condizione lavorativa e pensare, per tutti, un percorso ‘differente’.

(ottobre 2011)

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