mercoledì 8 febbraio 2012

All'inizio erano le madri.Intervista a Luciana Percovich

Solo la trasformazione dell'immaginario può rompere gli schemi interpretativi esistenti e farci rinominare la realtà.

Tra la confusione del vivere in uno spazio e in un tempo che non sentiamo più adeguati a rispondere alle domande di senso sulla nostra umanità e il cammino per cercare di intravedere una realtà che ancora non conosciamo, abbiamo fatto una chiacchierata con Luciana Percovich, docente della Libera Università delle Donne di Milano, appassionata di sacro femminile e pioniera della riscoperta delle radici femminili nelle civiltà storiche.
“Non uso mai il termine matriarcato; penso provochi una reazione di rigetto perché percepito come ‘società in cui comandano le donne’; ossia una società fondata sulle stesse strutture del patriarcato ma in cui il potere è in mano alle donne. E questo anche se l'etimologia del termine matriarcato ci riporta piuttosto a mater (madre) e arché (inizio) e la sua corretta interpretazione sarebbe ‘all'inizio erano le madri'.”
Che cosa si intende allora per società matriarcali o matrifocali, matrilineari?
Le società matriarcali, matrifocali o matrilineari hanno alla loro base dei clan o famiglie allargate il cui punto di riferimento è l'anziana della famiglia. Generalmente in questo tipo di organizzazione sociale c’è una condivisione delle proprietà e dei mezzi di produzione o comunque il passaggio di questi beni avviene per via femminile. I grandi vantaggi di queste società, detti in termini sintetici e prendendo a paragone il nostro presente, consistono nel fatto che le figlie non sono costrette ad abbandonare la famiglia materna, non ci sono problemi di gravidanze indesiderate, di figli illegittimi, di depressione post-partum, di aborti, perché bimbi e bimbe sono sempre bene accetti, e l'allevamento viene fatto oltre che dalle madri dalle sorelle e dalle nonne. Gli anziani sono curati e godono di grande rispetto. I maschi hanno prevalentemente il ruolo di ponte con l'esterno e la figura maschile per i bambini non è quella del padre biologico ma quella dei fratelli della madre.
In genere però queste strutture sociali appartengono alla preistoria, dal Paleolitico all’età del Bronzo. Quali sono i passaggi che ci hanno fatto abbandonare questo tipo di struttura sociale ed approdare a quello che chiamiamo il patriarcato? E perché è così difficile liberarci dal patriarcato?
Il processo di trasformazione dalle culture matrifocali al patriarcato è durato qualche millennio, perché ha incontrato non poche resistenze. Si è trattato di una guerra combattuta sia con le armi che con i miti e i simboli, per realizzare una rivoluzione nell'immaginario simile a quella che anche ora è necessario fare. L'immaginario infatti dà forma alla dimensione più profonda dell'umano, dove trovano risposta le domande fondamentali sul senso della vita e orienta, spesso inconsapevolmente, le nostre azioni.
I sistemi patriarcali, per riuscire a imporsi, hanno dovuto sopprimere o capovolgere la sapienza millenaria delle società matrilineari, hanno s-naturato le simbologie del passato, colonizzandole con valori diversi, basati sulla lotta contro la madre e contro la natura, viste solo come risorse da dominare e sfruttare. Dall'Illumismo in poi, inoltre, le idee di riforma o di rivoluzione delle società si sono basate sul presupposto che bastasse cambiare i rapporti sociali di produzione per provocare il cambiamento. Ma ogni progetto di società che consideri la vita spirituale delle persone e le religioni solo come sovrastrutture è destinato a fallire miseramente, come anche la storia del ‘900 lo dimostra.
Cosa ci possono dire questi modelli del passato?
Che dobbiamo rinunciare alla logica della gerarchia e dello sviluppo, inteso come una linea retta, e recuperare la dimensione circolare e ciclica. I modelli patriarcali che, dal punto di vista temporale sono venuti dopo alle precedenti società matrifocali, non rappresentano di fatto una ‘evoluzione' o il ‘progresso’, semmai il contrario. La sapienza dei primi miti racconta come la creazione non sia un gesto avvenuto all'inizio del tempo, una volta per tutte, ma che il principio di creazione viene rimesso in moto tutte le volte che, attivamente, l'umanità riesce a stabilire rapporti di equilibrio anziché di sopraffazione o sfruttamento.
Le società del passato possono costituire un modello non nella riproposizione di un ordine sociale estinto ma contribuendo a spezzare quell'immaginario negativo che è stato loro calato addosso e riportando alla luce l'idea dell'equilibrio, tra umani e natura e tra esseri viventi tout court. Le culture matriarcali non sono obnubilate dall'idea dello sviluppo, del progresso, dell’altrove come meta; nel ‘qui e ora' occorre lavorare per creare l’ armonia tra i vari bisogni e dimensioni. Sono società pacifiche, non basate sulla competizione e sull'accumulazione; hanno molto presente il senso del limite.
La Dea Madre rappresentava proprio questo principio regolatore e ciclico, non era tanto il femminile inteso come corpo che dà la vita, ma era soprattutto considerata come Colei che dà le regole, le forme attraverso cui una società possa svilupparsi in armonia. Con l'irruzione del Dio monoteista, esterno alla creazione, si ruppe questa visione del ‘divino nella natura’, introducendo svalutazione e controllo su tutto ciò che è materia e corporeità, proprio la visione che oggi ci mostra evidenti tutti i danni che ha prodotto.
C’è un’esperienza molto attuale, quella delle nuove costituzioni di Bolivia ed Ecuador che hanno messo nel loro prologo il principio del Sumak Kawsay, parola quechua traducibile come 'buon vivere' inteso come capacità di vivere in armonia con il mondo circostante, natura ed esseri viventi. Il Sumak Kawsay è un principio generatore, da cui scaturiscono i criteri alla base del patto sociale, e ordinatore, da cui derivano le norme che regolano la convivenza. E' un esperimento interessante perché, portato avanti a livello statuale pur con grandissime difficoltà, propone la ricerca di un modello alternativo.
Esperienze come quelle a cui ti riferisci sono fondamentali proprio perché, pur con le grandi difficoltà che incontrano nella loro attuazione, vanno nella direzione di suscitare delle visioni alternative e provocare uno strappo nell'immaginario. La stessa rottura è stata operata, in senso contrario, quando al concetto di Dea Madre si è sostituito quello di Dio Padre. La Dea Madre rappresentava quel principio generatore e regolatore; Dio Padre ha introdotto e sostenuto invece le istanze di controllo e di dominio su tutto ciò che è materiale, corpi, piante, natura.
Una sorta di sorveglianza che rompe l'autonomia e il vivere in armonia di quei corpi. Questo mi sembra uno dei tratti fondamentali di ciò che ancora oggi, in maniera sempre più marcata, stiamo vivendo: il biopotere.
Certo, questa è la hybris del pensiero occidentale, e del pensiero scientifico in genere, che sembra voler dire alla natura: “Tu sbagli. E’ l’uomo/dio che dà i modelli e se ne sei fuori, sei espulso dal biopotere”.
Le donne hanno recuperato la dimensione della sacralità perduta e il legame con il tempo della matrifocalità attraverso alcuni gesti quotidiani; ma incentivando il genere femminile a potenziare questo modello non si rischia di marginalizzarlo ancora di più?
Il problema non è la marginalizzazione ma il saper mettere in discussione in maniera profonda la sensatezza dei modelli patriarcali. Quando ciò avviene, non si ha più il desiderio di lottare per guadagnare un posticino all'interno di questo sistema proprio perché lucidamente se ne vede la perfetta follia. Mentre diventa fondamentale il gesto di ricentrarsi su di sé in quanto donne: è un atto fondativo che restituisce senso e fa cambiare la percezione di ciò che abbiamo intorno e introiettato dentro di noi. Significa liberarsi dalle dipendenze e osservare con distacco ciò che ci circonda. Si tratta di spostare completamente la centratura della società da un mondo basato sui valori maschili della competizione e del consumo per entrare invece nella dimensione della relazione con ciò che ci circonda e con i nostri limiti. La preoccupazione di autoemarginarsi è propria di chi investe ancora molto sulla politica tradizionale.
Che senso ha un gesto individuale? Il percorso verso il cambiamento non dovrebbe essere fatto in forme di partecipazione che siano anche collettive e che prendano forma insieme ad altri?
Sono molte le persone che si stanno ponendo queste domande. In questo momento, non sentiamo la necessità di renderci visibili più di tanto: da una parte perché ciò che è visibile viene rapidamente fagocitato e trasformato in merce, e dall'altro perché siamo in una fase di ricerca, di sperimentazione. Si tratta di modificare gli obiettivi di una comunità ma anche le modalità di relazione tra gli individui. Tutte cose che nel mondo della politica tradizionale sono impraticabili.
Siamo in transizione tra un modello che non è più adeguato e un divenire che ancora non c'è. Dobbiamo ripensare e rinominare una realtà che ancora non conosciamo. Quali sono le pratiche che ci possono orientare in quest'epoca di cambiamenti?
Innanzitutto sarebbe importante riportare il sacro nel quotidiano per ridare valore a tutto quello che prendiamo nella relazione con la natura, per renderci conto che non può andare avanti il saccheggio dell’acqua, dell’aria, delle piante e degli animali. Che il lavoro non ha come scopo unicamente la produzione di denaro, ma che è un modo per manifestare le nostre potenzialità creative. Poi condividere e praticare modelli di relazioni rituali che restituiscano a ciascuna/o la propria ‘anima’ e ci permettano di rimetterci in sintonia con i ritmi delle stagioni, del nascere-crescere-invecchiare-morire, e quindi tornare ad una dimensione che è altro dal tempo lineare. I gruppi lavorano in cerchio, creando consapevolmente uno spazio extra-ordinario che permette di stabilire relazioni diverse tra le persone, lontane dai modelli della gerarchia e del dominio. Per cambiare occorre lavorare su di sé e insieme alle altre/i.

(20 Giugno 2011)

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