mercoledì 8 febbraio 2012

Qui la casa è un diritto

In giro per la Ciudad Vieja con Beatriz Barneche del Movimento di Partecipazione Popolare

Il centro storico di Montevideo, primo bastione della colonizzazione spagnola che costruì, a partire dal 1726, un agglomerato urbano sulla sponda orientale del Rìo de la Plata per bloccare la crescente influenza del Portogallo e le fughe dei corsari inglesi, francesi e danesi che saccheggiavano le navi intorno a Buenos Aires, conserva molte residenze antiche, appartenute all’alta borghesia, che nel corso degli anni sono state progressivamente abbandonate e occupate da una parte di popolazione più povera, che viveva grazie al traffico portuale, al commercio informale e a lavori al limite della legalità. E’ una piccola penisola che si inoltra nell’enorme Rio della Plata, con costruzioni molto interessanti, testimonianze dell’architettura coloniale e neoclassica con successive aggiunte art déco, dalle cui strade e piazze si può ammirare la suggestiva discesa verso il fiume da tre punti cardinali. Alcuni di questi edifici si sono trasformati, con gli anni, in conventillos, costruzioni destinate ad accogliere gruppi di più famiglie in difficoltà, così come accadde a Buenos Aires nel quartiere de La Boca. “Durante la dittatura, - racconta Beatriz Barneche del MPP – Movimiento de Participaciòn Popular – che mi accompagna a visitare quest’area - il governo voleva distruggere questa zona; il progetto era quello di costruire un quartiere commerciale con edifici moderni e dislocare tutta la gente più povera nelle periferie”. Anche su questa tema si attivò una resistenza popolare e nacque una Commissione di salvaguardia del Centro storico integrata da architetti e cittadini. “A distanza di 20 anni dalla fine della dittatura, - prosegue - grazie al lavoro intenso dei residenti insieme al Comune, alcune di quelle residenze antiche sono state ristrutturate e sono diventate alloggi popolari di qualità, con alla base una concezione di società solidaria nella quale l’abitare diventa un diritto. La tradizione cooperativistica, in Uruguay, - mi spiega - da oltre trent’anni permette alle famiglie più bisognose di trovare una soluzione abitativa.” L’organizzazione uruguayana più grande e maggiormente attiva nel campo della costruzione di abitazioni popolari e di sviluppo urbano è FUCVAM - Federación Uruguaya de Cooperativas de Viviendas por Ayuda Mutua-. Nel marzo 2004 circa 16.000 famiglie di medio e basso reddito (tra 200 e 500 dollari mensili) erano affiliate alla Federazione attraverso il sistema cooperativistico di costruzione. Il voto degli affiliati, in una recente assemblea, ha ribadito che nel sistema cooperativistico si continuerà a privilegiare la proprietà collettiva. I cooperativisti individuano un edificio da ristrutturare o un terreno su cui costruire, ricevono un prestito e costruiscono o ristrutturano loro stessi la propria casa, lavorando come muratori, piastrellisti, idraulici ed elettricisti appoggiati da un equipe che fornisce assistenza tecnica. Il regime di patrimonio comune viene mantenuto anche quando la costruzione è finita: la proprietà rimane per sempre alla cooperativa ma chi ci abita ha diritto all’usufrutto permanente e a passare la casa ai propri figli. Il prestito ricevuto si comincia a pagare solo quando l’opera è finita e la rata mensile non deve superare il 40% degli ingressi familiari. Se una famiglia rimane senza lavoro, per il pagamento subentra il fondo della cooperativa. Se si cambia lavoro e lo stipendio diminuisce si rinegozia la rata mensile. Insomma ognuno paga conciliando tempi e modalità con una vita dignitosa: la casa diventa un diritto.

IL PROGETTO MUJEFA
(Mujeres Jefas de Familia – con Elis Araujo)
C’è una casa, nella zona coloniale di Montevideo, che ha una storia molto antica. Fu costruita nel 1886 da un nobile e, nel corso degli anni, è stata abitata da un medico inglese, poi residenza per giovani studentesse, Hotel, magazzino per rifiuti, ed ora, finalmente ristrutturata e valorizzata da una cooperativa di sole donne, attraverso un progetto pilota – MUJEFA -, è alloggio per dodici ragazze madri con i loro bambini.
Elis Araujo è una delle dodici donne che, dal 1994, con i loro figli, stanno vivendo in un appartamento che hanno costruito con le proprie mani. Parlando con lei, che pur ci ha raccontato una vita complicata, traspare la serenità e la soddisfazione di chi ha trovato un punto fisso, un approdo sicuro.

Come è cominciata la vostra storia?
Ci siamo conosciute nel 1987. Eravamo un gruppo di ragazze madri con bambini piccoli che frequentavano lo stesso asilo e tutte con lo stesso problema: un posto dove vivere. Quasi tutte stavamo vivendo in stanze affittate o in pensioni ed eravamo costrette a cambiare spesso; lavoravamo in nero, in servizi domestici o nel commercio informale. Ci siamo messe insieme e, aiutate dall’assistente sociale della scuola materna, abbiamo cominciato a cercare una soluzione al problema della casa che era quello che ci assillava di più. Fin dal primo momento abbiamo capito che non volevamo lasciare il nostro quartiere, il quartiere in cui eravamo nate e vissute, in cui potevamo contare su una rete di appoggio sociale e sui servizi pubblici. Dai servizi sociali, ai quali ci eravamo rivolte per avere un aiuto, ci è stata proposta la possibilità di costituirci cooperativa e lavorare in questo senso. E’ sembrata a tutte le strada più percorribile e così, anche in mezzo a grandi difficoltà, l’abbiamo portata avanti fino in fondo.

Come avete individuato la casa?
Qui, nel centro storico, ci sono molte ex residenze che sono in uno stato di abbandono. Con l’aiuto del Municipio abbiamo identificato questa casa. Era in uno stato pessimo, utilizzata come magazzino di immondizia da gente che lavora nel riciclaggio di rifiuti. Questo edificio ha una storia molto antica e rimetterlo in sesto è stato importante anche per il quartiere; varie volte mentre stavamo lavorando passava qualcuno, soprattutto anziani, che ci raccontavano vecchie storie sull’edificio. Una volta che la scelta fu fatta il Sindaco di allora, che era Tabarè Vasquez (ndr l’attuale Presidente della Repubblica) la comprò per noi. Il nostro è stato un progetto pilota e siamo state appoggiate da un equipe con l’assistente sociale, la psicologa, l’avvocata e, ovviamente, un architetta che, con l’aiuto della Facoltà di Architettura, si è occupata di fare i piani dell’opera e progettarne gli spazi.

Quanto ci avete messo a costruire la casa?
La costruzione vera e propria è durata due anni e mezzo, ma già da prima avevamo cominciato a lavorare nell’edificio per ripulirlo e portare fuori tutti i rifiuti. E’ stato molto duro. Il Comune ha comprato l’immobile e ci ha aiutato ad avere un prestito per acquistare il materiale per la ristrutturazione ma la manodopera l’abbiamo messa noi; per due anni e mezzo abbiamo lavorato 16 ore a settimana alla costruzione ma, ovviamente, ognuna di noi doveva conservare il suo impiego per mantenere se stessa e i propri figli. A quel tempo i nostri bambini erano molto piccoli ed è stato faticoso andare avanti ma ne è valsa la pena. Infatti su dodici di noi che hanno cominciato tutte hanno portato a termine il progetto. E’ stato importante essere unite ed appoggiarci a vicenda.

Ora che avete risolto il problema dell’abitazione, che progetti avete per il futuro?
Siamo molto soddisfatte di quello che abbiamo fatto. E’ stato importante, soprattutto per i nostri figli che grazie a questa stabilità hanno potuto studiare e sicuramente avranno un futuro più solido del nostro. Il fatto di avere di un’abitazione fissa ci ha permesso anche di sentirci più sicure psicologicamente e quindi abbiamo cominciato a pensare ad un lavoro migliore. Attualmente un gruppo di noi sta cercando di aprire una caffetteria dove ci siamo anche degli spazi per la presentazione di libri e una sala per esposizioni. E’ una cosa nella quale crediamo molto e che si dovrebbe concretizzare quest’anno.

(01 Luglio 2005)

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